Archers Of Loaf

Archers Of Loaf

We!Want!Waste!

Com'è fatta l'adolescenza? Rumorosa, confusa, piena di rabbia e di libertà, una sorta di stordimento da cui ci si risveglia, a un tratto, chiedendosi come mai si è scesi dal treno. Tutto questo è ciò che sono stati gli Archers Of Loaf nella grande epopea del rock alternativo degli anni 90. E anche loro, quando la dorata stagione dell'adolescenza è finita, hanno lasciato il campo...

 

di Lorenzo Righetto ed Enrico Viarengo

Tecnicamente meno brillanti, ma sicuramente più versatili dei Dinosaur Jr, propensi a dissonanze e obliquità solo lontanamente imparentate al noise intellettuale dei Sonic Youth o alla sghemba filosofia lo-fi dei Pavement, fracassoni e sguaiati come i Pixies più in forma, ma ancor meno avvezzi a logiche di mercato, gli Archers of Loaf hanno rappresentato più di ogni altra band alternativa dei 90 la vera attitudine indipendente, rifiutando accordi con major discografiche e esaltando i caratteri “disturbanti” della propria musica senza farne un manifesto; continuando, semplicemente, a scrivere ottime canzoni pop impacchettate con la carta da giornale: sporche, grezze, oneste e potenti.

Gli Archers of Loaf si formano nel 1991 in una piccola città del North Carolina. Chapel Hill conta cinquanta mila abitanti e un paio di promettenti band del panorama underground già all'attivo: i Superchunk e il loro punk-rock da college prodotto da un certo Steve Albini e gli appena formatisi Polvo che, con chitarre insistenti e gusto per l'obliquità, si preparano a distruggere il formato canzone con l'album di debutto "Cor-Crane Secret".
Non è un caso che i quattro studenti dell'Università del North Carolina, Eric Bachmann (voce e chitarra), Eric Johnson (chitarra), Matt Gentling (basso) e Mark Price (batteria) puntino all'irruenza chitarristica del primo singolo “Wrong”, un'invettiva sentimentale adolescenziale semplice tanto nel contenuto quanto nella forma: un riff di quattro accordi, qualche stacco in puro stile old-school punk e tanta rabbia incanalata in quell'energia fondamentale per un esordio. “Wrong” è destinata a rimanere il biglietto da visita della band come il perfetto incrocio tra melodia e rumore e il fatto che, grazie al singolo, i quattro riescano a ottenere un contratto con l'etichetta indipendente Alias (Yo la Tengo) decreta la momentanea vittoria della potenza delle chitarre sulla pulizia del suono, aspetto che è sempre interessato poco a Bachmann e soci.

Icky Mettle si apre con il refrain radiofonico di “Web In Front”, dall'andamento tutt'altro che metronomico; a una sezione ritmica degna dei Pavement più sommari e un costante disturbo fuzz elettrico, si aggiungono fraseggi riverberati e distanti di una chitarra di derivazione emo che, con poche note malinconiche, colora e arricchisce un arrangiamento essenziale.
Se Bachmann si preoccupa dello scheletro delle composizioni, con un accompagnamento distorto sul quale si staglia un cantato dalla grassezza hardcore, Johnson cerca di attenuare l'abrasività bidimensionale della scrittura ampliando lo spettro chitarristico con interventi catchy e melodici, che danno un respiro più giocoso alla filastrocca di “Plumbline” o al contrario con inserimenti dissonanti su frequenze altissime come in “Learo, You're a Hole”.
Il protagonismo delle sei corde lo si evince soprattutto dalla quantità di momenti strumentali del disco: i sussurri su un semplice giro di basso in “You And Me” preparano all'esplosione sterefonica di chitarre e feedback che sommergono la voce urlante del leader, mentre “Toast” è una cavalcata nervosa quasi completamente strumentale che dà una dignità creativa a un esordio totalmente giocato sull'energia e sull'eccesso, il vero marchio di fabbrica del quartetto. Sono diversi i momenti in cui la band si limita a restare su binari ben precisi senza aggiungere nulla di nuovo (la tirata punk-hardcore di “Sick File”), ma di certo non manca la forte personalità di chi vuole scardinare il concetto di "genere" rivisitando, ad esempio, gli stilemi folk nello sgraziato 3/4 di “Hate Paste”.

archersofloaf_viiRinnovato l'accordo con l'Alias, decidono di ampliare il repertorio secondo le proprie regole. Lo fanno con l'Ep Vs the Greatest of All Time (il cui titolo è una canzone contenuta, chissà perché, nell'album successivo), il vero capolavoro della band americana. Si susseguono, allacciate l'una all'altra come in un'opera rock, una “Audiowhore” dai rimandi hard-rock, la saltellante ed energetica “Lowest Part is Free!”, perfetta summa dello stile Archers (tappeti sonori in mi cantino e doppie voci caotiche comprese), la malinconia college di “Freezing Point” (con tanto di esclamazione “Guitar!” e conseguente bridge strumentale saturo di distorsioni), la stramba “Revenge” che sembra uscita da una colonna sonora di un film western orientale e infine l'accusatoria e più scura “All Hail The Black Market”, che si chiude con le ciniche parole “Superficial motherfucker wasting”.

Vee Vee (Alias, 1995) è un ulteriore passo in avanti, non tanto nei contenuti quanto nella forma. La band ha acquistato sicurezza, la produzione è più solida e il tutto risulta più quadrato, senza perdere l'anima noise. Ancora una volta, i quattro di Chapel Hill vanno controcorrente, racchiudendo il disco tra due momenti decisamente fuorvianti: “Step Into The Light” è una lenta e lisergica ninna nanna che nessun produttore piazzerebbe in apertura; a chiudere tocca a “Underachievers Marchand Fight Song”, fanfara fischiettante e cacofonica che suona più come una provocazione che altro.
Nel mezzo, l’”I!Want!Waste” di “Harnessed In Slums”, hit “definitiva” per le college radio, saliscendi ormonali come "Underdogs Of Nipomo", l’agonizzante rumore di “Fabricoh” e “The Worst Has Yet To Come”, l’hardcore recitato di “Nostalgia”, l’attonita solitudine e disperazione, la rabbia di “Floating Friends” e “Death In Park”.
Registrato in una settimana, Vee Vee è un unico, grande urlo libertario, un gesto di sfida al mondo e alla musica, l’inarrestabile espressione di una creazione:

They caught and drowned the front man
Of the world's worst rock and roll band
He was out of luck
Because nobody gave a fuck
The jury gathered all around the aqueduct
Drinking and laughing and lighting up
Reminiscing just how bad he sucked
Singin' throw him in the river
Throw him in the river
Throw him in the river
Throw the bastard in the river.
da “Greatest Of All Time”

Una maturità temuta (e disprezzata?)

Come si immaginavano, Bachmann e soci, da grandi? Dopo aver rifiutato un contratto discografico all’etichetta di Madonna, devi dimostrare in qualche modo di meritare la tua indipendenza, di spiegare a te stesso che cosa hai ancora da dire per voler fare a modo tuo con così tanta convinzione nei tuoi mezzi; allo stesso tempo, il passaggio dalla Alias alla Elektra (sotto il cartello Warner) significa che devi dimostrare di saper prendere la musica come un lavoro da professionista.
All The Nation’s Airports viene quindi affrontato dagli Archers Of Loaf in questo stato mentale: spendono tre settimane per registrarlo, rinunciando a riversare in presa diretta la propria teenage angst; in più, sanno ormai bene di cosa hanno bisogno per ottenere il sound che hanno in mente.
L’evoluzione del gruppo è però naturale: All The Nations’ Airport è un disco dal sound pulito ed espansivo, come a raccontare un’epica della solitudine americana, le luci ovattate di un aeroporto viste dalla propria auto attraverso la pioggia (una premonizione di “The Lonesome Crowded West” e, per chi vuole, di eventi più “materiali”).

Shuffling through all the nation’s airports
Invalids collide with terrorist scum.
Choking on the lag, the headset's spilling over.
Choking on the lag, the exiles plot.
(da “All The Nation’s Airports”)

Introdotta dalla “b-side naturale” “Strangled By The Stereo Wire”, filastrocca-fumetto di disturbante non-sense e di furore anti-caos, il disco ospita una gamma sonora ed espressiva ben più ampia, un desiderio di descrizione di percezioni e pensieri più articolato del semplice ma irruente vociare di chitarre dei precedenti, soprattutto di Icky Mettle. Insomma, arriva la tanto agognata e temuta maturità.
Pur ritornando agli stilemi del rock alternativo anni 90, il registro cambia spesso anche all’interno di una stessa canzone – come in “Scenic Pastures”, con una base di chitarra nuda e sfuggente, alla Feelies, una parte centrale nella quale Bachmann sembra trascinare il pezzo a un apice di rumorosa catarsi, e improvvisamente una chiusura di smarrita malinconia, con la chitarra iniziale che torna e si incastra con semplici accordi che sembrano dilavarsi nello sconcerto di una solitudine, di un abbandono emotivo.
La tripletta “Worst Defense”–“Attack Of The Killer Bees”–“Rental Sting” pare invece seguire il tracciato di un accumulo ansiogeno nel quale la scelta – risalente a Vee Vee – di usare lunghe parti strumentali per esprimere un dolore muto, inesprimibile ma totale si estende su più tracce, culminando scenograficamente nella calma piatta di “Rental Sting”, lamento di alienazione: “Dead and white, our distance is disguised/ Mad and sad when it's my misunderstanding/ Rental sting, the customer is king/ Waste your life, waste your life”.

Più banalmente, All The Nation’s Airports ha al suo interno le prime tracce non chitarristiche del gruppo, che utilizza in “Bombs Away” e “Chumming The Ocean” un pianoforte polveroso (“da saloon”, lo definisce Bachmann) e nella seconda una composizione pop di struggimento dalle forti componenti narrative e, più in generale, rappresentative.
Ma Airports è anche un disco di grandi aperture strumentali, come nella progressione di “Acromegaly”, espressione di quello che è forse il “migliore” rock muto: una canzone che si fa portatrice di un’emozione, anzi ne descrive la gestazione in una sovrapposizione di linee d’arrangiamento che sbocciano con una sorta di stupore non dissimulato per l’apparizione della vita, o perlomeno di qualcosa che ha a che fare con essa.

archersofloaf_xIn All The Nation’s Airports emergono insomma tutte le sfumature intellettuali – già intuibili in Vee Vee – che sottendevano alla rabbia giovanile dei primi dischi; un’ibridazione prevedibilmente mal vista dai sostenitori della band, tanto che tutto ciò che ha seguito Vee Vee è generalmente etichettato come materiale minore della band.
Non che non lo sia, ma più per un’ispirazione meno concentrata (in uno stato di transizione), che per scelte infelici riguardo al sound o all’espressività in generale. Semplicemente gli Archers Of Loaf si stanno trasformando in un’altra band (magari nei Crooked Fingers, espressione di Bachmann nei Duemila), una band che tenta di connettere un’espressione viscerale col pensiero, e fare delle proprie convulsioni interiori una riflessione più generale. Il che non è solo accettabile, ma anche affascinante: forse, però, non è come gli Archers si immaginavano da grandi. È lo stesso Bachmann ad aver dichiarato: “La nostra musica non è concepita per essere intelligente; si suppone che sia viscerale”.

Tutto questo si compie con ancora più evidenza nel seguente White Trash Heroes, che sembra quasi uno sberleffo a sé stessi: Bachmann abbandona il suo latrato in favore di un flebile semi-falsetto, che fa sembrare “Dead Red Eyes” un pezzo dei Fleetwood Mac; il suo progetto a nome Barry Black di stampo Waits-iano riverbera nel blues di “Slick Tricks And Bright Lights”; rintocchi meccanici, vocoder e declamazioni industrial si impossessano di Bachmann in “One Slight Wrong Move”; un’epica prog fredda e distaccata riveste le volute strumentali di “Smokers In Love”; esperimenti improvvisati come “Banging On A Dead Drum”, nella quale i membri della band si scambiano gli strumenti, suonano solo come segni di stanchezza e di noia.
Orgogliosamente arroccato su uno sperimentalismo qualunque, White Trash Heroes suona in ogni nota come un disco di addio, nel quale la band non ha nessuna voglia di dialogare – l’unico scopo del disco sembra giustificare con espedienti casuali la presenza contemporanea in studio di quattro persone. Le vendite vanno male, il tour anche: gli Archers hanno addirittura difficoltà a riprodurre sul palco i pezzi dell’ultimo disco. L’operazione per il tunnel carpale del batterista, Mark Price, sembra la giustificazione che la band aspettava per certificare la fine degli stimoli espressivi.

A dimostrazione del fatto che, comunque, lo scioglimento della band non avvenne in circostanze spiacevoli, il 15 gennaio 2011 gli Archers Of Loaf riappaiono sul palco del Cat’s Cradle, il locale che aveva ospitato il loro ultimo concerto, a Chapel Hill (si trova ora a Carrboro, nei dintorni). La loro reunion segue da vicino quella di altre grande band dei 90, tra le quali i Pavement, i Dinosaur Jr. e i Guided By Voices e comprende la reissue del loro intero repertorio da parte della Merge. Non sono previste nuove uscite, ma, si sa, gli Archers Of Loaf faranno semplicemente quello che hanno sempre fatto: quello che vogliono.

Enrico Viarengo: Icky Mettle, Vs The Greatest Of All Time, Vee Vee
Lorenzo Righetto: Vee Vee, All The Nation's Airports, White Trash Heroes

Archers Of Loaf

Discografia

Icky Mettle(Alias Records, 1993)

7,5

Vs The Greatest Of All Time(Ep, Alias Records, 1994)

8

Vee Vee(Alias Records, 1995)

8

All The Nation's Airports(Alias Records, 1996)

7

White Trash Heroes(Alias Records, 1998)

6

Seconds Before The Accident(live, Alias Records, 2000)

Pietra miliare
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Streaming

Web In Front
(da Icky Mettle, 1993)

Might
(da Icky Mettle, 1993)

Wrong
(da Icky Mettle, 1993)

Lowest Part Is Free
(da Vs The Greatest Of All Time, 1994)

Harnessed In Slums 
(da Vee Vee, 1995)

Underachievers March and Fight Song
(da Vee Vee, 1995)

 

 

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