Curiose novità in arrivo da Eric D. Johnson, gentile miniaturista pop-folk a marchio Sub Pop. Non che negli ultimi tempi ci aspettassimo qualcosa dalla sua ridente isoletta musicale, e forse una considerevole fetta della sorpresa nasce proprio da questo. Dopo l’imbarco da controfigura di James Mercer sul vascello Shins, un anno e mezzo fa, il Nostro cerca ora una dissimulazione delle proprie spoglie anche alla testa dei suoi Fruit Bats, progetto che lo ha già visto licenziare tre album prima di questo nuovissimo “The Ruminant Band”. Nei brani che aprono e chiudono il disco, “Primitive Band” e “Flamingo”, sono suggerite per sommi capi le linee generali di una significativa revisione, non relativa al piano stilistico quanto piuttosto a quello relazionale. Uno scartamento in un certo senso, uno spostamento per vie orizzontali verso una prospettiva meno definitiva e più incerta, nebulosa. Le due canzoni in questione hanno più il sapore dell’impressione che non della concreta istantanea. La propensione per le tonalità estive è confermata ma quelli abbozzati in questo caso sono sogni più tiepidi, sfumati.
La ballad dal retrogusto beatlesiano “The Hobo Girl” chiarisce quanto sia ambita per Johnson questa direzione, nella scelta di mantenere una pregevole distanza a livello emotivo e formale. Sembra una canzone congelata nel passato, con l’intento di ingannare i vecchi Fruit Bats ora che si brama il fascino impagabile della lontananza. Stessi scenari per “Feather Bed”, con un pianoforte cadenzato eletto a protagonista assoluto ed Eric che gioca ancora a fare il piccolo Lennon, quello di “Double Fantasy” (ma senza la sua Yoko). Il bello è che, senza voler strafare, nemmeno sfigura e riesce comunque a trasmettere tutto l’amore nella citazione. In brani come “Beautiful Morning Light” si fanno più nette certe sensazioni: scarna, sospesa, efficace nel lasciare sprazzi di incanto grazie a un arpeggio spartano come non mai, la canzone è una preziosissima testimonianza in acustico di questa curiosa ed ammirevole esigenza di concretezza, votata al taglio di ogni eccesso espressivo. Una prospettiva che a molti cantautori in sedicesimo di oggi farebbe parecchio comodo, persino a cavalli di razza come M. Ward.
E’ una sorta di imperativo non scritto. “Tegucigalpa” insiste con questa tendenza all’omeopatia, al rifiuto dell’inessenziale. Stavolta, tuttavia, negli scheletri architettonici di ossicini di pollo si ritrovano scampoli della polpa del precedente, indimenticabile, “Spelled In Bones”, forse il gioiello più splendente nel repertorio della band di Seattle. Ora però il cambiamento si percepisce, eccome. Nella title track le delicatezze della band sono ridotte a un’essenzialità che sa di cartolina o di caricatura: apprezzabile l’intento dietetico, gradevole e ben svolta come bozzetto, per quanto forse un po’ riduttiva e con Johnson eccessivamente impegnato a giocare a nascondino. “Being On Our Own” e “My Unusual Friend” sono frizzantine. Pur riflettendo in buona misura l’Eric classico già ne incarnano la sconfessione, per lo stesso motivo appena esposto. Sono pacate, per nulla viscerali ma, grazie al cielo, non si riducono a suonare come meri esercizi di stile. Sfortunatamente non intrigano però come vorrebbero.
Stesso discorso per “The Blessed Breeze” dove il coefficiente di tipicità è più alto ma ancora una volta non si pigia sull’acceleratore. Se tanti indizi fanno una prova certa, non restano dubbi sul fatto che si tratti di una scelta espressamente voluta e ragionata. In fondo la tavolozza dei colori (qui quelli più nostalgici) è rimasta la stessa, per cui non si segnalano evidenti controindicazioni in fase di ascolto. A questo Eric Johnson spogliato e spigliato, apparentemente sgravato da chissà poi quali responsabilità, ad ogni modo si deve rispetto. Con “Singing Joy To The World” ci lascia il suo respiro e fa centro, insinuando una variante dimagrita ma non disinnescata della genuina freschezza a marchio Shins. Un lavoro onesto in definitiva, sicuramente interlocutorio visti i diretti predecessori, ma tutt’altro che sgradevole. Per la caparbietà con cui declina il verbo del soft focus, l’effetto flou adottato come nuovo abito mentale oltre che estetico, merita senza dubbio almeno un rapido plauso, anche qualcosa in più se si è particolarmente benevoli.
E poi è un disco estivo, placidamente estivo.
24/05/2016