And I'm afraid and I'm scared and I'm terrifiedSta in questi tre versi di “Treat Me Like A Woman”, disarmanti nel loro raggelante crescendo di terrore, il nucleo lirico del disco, il sentimento più profondo che ne permea i trentacinque minuti. In una malinconia che pare non dover conoscere termine, raccontata con un'asciuttezza priva di appigli pietistici, Lucy Rose imbastisce un altare alla propria sofferenza, scaglionato in undici episodi senza tempo e collocazione, che non esitano ad ammantarsi di una finissima aura classica.
That these things won't ever change
For all of my life
Dismesso pressoché ogni contributo ritmico, l'inquadramento sonoro di “No More Words” passa per una dimensione prettamente cameristica, in cui la pregnanza di melodie e parole (talvolta anche la loro assenza, vedasi l'inesorabile climax vocale della prima parte della title track) viaggia attraverso scheletrici commenti di chitarra, accenni di pianoforte e sottili spunti di archi. Tanto basta, per supportare la visione ferma dell'autrice, che la sfrutta in tutta la sua greve bellezza, tra meste ballate dal tocco antico (le cadenze jazzy di “Solo(w)”, memori del taglio cross-genere di Josienne Clarke e Ben Walker), spoglie progressioni blues (“The Confines Of This World”), spigolose accelerazioni acustiche (le ruvide plettrate di “What Does It Take”), in un continuo avvicendarsi di motivi e suggestioni.
Immortalatasi nell'autunno di una vita, che fortunatamente è approdata da allora a un grado di maggiore serenità, Lucy Rose intercetta un momento di sostanziale fervore creativo, più che atteso dopo anni di tentativi a metà e freni a mano, su un talento intravisto soltanto in tralice. Al netto dei cliché, scavare nelle ferite del proprio io è operazione tutt'altro che banale.
(29/05/2019)