May the ballroom remain eternal.
C'est fini.
"Everywhere At The End Of Time - Stage 6" è il tanto atteso capitolo finale di una lunga epopea durata tre anni e sei album, che si candida, presa nel suo insieme, a essere una delle più monumentali opere musicali del decennio. Si tratta di un
corpus sonoro mastodontico, di 630 minuti totali, che richiede all'ascoltatore dedizione, immersione, volontà di mettersi in gioco sospendendo il giudizio fino alla conclusione. Se è facile paragonare un album musicale a un film, allora questa serie di opere di uno dei tanti progetti di
James Leyland Kirby, qui con lo pseudonimo The Caretaker, è più simile a una serie tv antologica, per la quale la suddivisione in puntate è soprattutto un'esigenza di fruibilità.
Dal 2016, quindi, si è alla ricerca del finale di una storia drammatica già nei suoi presupposti, subito dichiarati dall'autore. Il sestetto di album si propone, infatti, di rappresentare in musica l'avanzamento della demenza, dai primi stadi fino alla sua più brutale e tragica conclusione in un deserto di segni e riferimenti indistinguibili. Un lavoro operato facendo riferimento ai sintomi della malattia, opportunamente rispecchiati nei lunghi brani che hanno costituito l'ossatura del progetto. Ogni capitolo è stato pubblicato con opportune note, dal carattere programmatico-metodologico, che hanno aiutato a districarsi nel complesso mondo sonoro creato dall'autore.
Dopo i primi sintomi ("
Stage 1"), dove la perdita di memoria rappresenta lo spunto per paesaggi onirici da rimirare con sconfinata e dolce malinconia, si giunge alla fase dell'autorealizzazione ("Stage 2"), dilaniata da tentativi di rifiutare la propria malattia e ricostruire al meglio i propri ricordi, che tuttavia sfuggono già la coerenza. La confusione ("Stage 3") rende straziante il tentativo di conservare ancora qualche memoria, poi sopraggiunge l'orrore ("Stage 4") di non riuscire più a ricordare, ricostruire, rivivere nella propria mente. L'isolamento che ne consegue ("Stage 5") comporta la distruzione del proprio passato, tanto che il conosciuto diventa estraneo e viceversa.
Infine, eccoci arrivati allo struggente, devastante ultimo stadio, l'unico per il quale l'autore ha deciso di non rilasciare una precisa descrizione. La fine della carriera di The Caretaker, tanto prevista quanto struggente, è così un viaggio inedito nella desolazione di chi, perdendo la memoria, ha perduto se stesso. Di più, è un grande funerale del suono, uno sguardo agghiacciante alla fine della musica che guarda oltre il revival, oltre il minimalismo e oltre la manipolazione post-ambient.
Nelle quattro ciclopiche composizioni di 20 minuti che lo compongono si scorge una desolazione che senza pietà trasporta l'ascoltatore al centro dell'orrore della degenerazione della memoria, in un incubo senza confini precisi dove i suoni rimbalzano, fino a disgregarsi in un grigiore asfissiante. Come è capitato negli altri "stadi", anche questa volta sono fondamentali i titoli, unico appiglio per interpretare meglio la sconfinata nebbia sonora proposta.
Fortuna vuole che Kirby sia capace, da sempre, di sfoggiare nei titoli un'invidiabile sintesi poetica, ideale compagna della predilezione tutta strumentale delle composizioni. Questa volta si va da "A Confusion So Thick You Forget Forgetting" e "A Brutal Bliss Beyond This Empty Defeat" al deprimente epitaffio "Long Decline Is Over" fino al trascendente titolo conclusivo, "Place In The World Fades Away". Quattro indicazioni per meglio addentrarsi nel capitolo finale di un viaggio che trova pochi paragoni nella storia della musica, perché i precedenti illustri, come i
loop di
Basinski, non condividono né la tematica né le proporzioni colossali di questo vasto lavoro, qui giunto a conclusione.
Difficile per chi scrive poter valutare questo album a prescindere dai cinque capitoli precedenti, con il quale forma un tutt'uno: sarebbe come recensire il magnifico finale de "
I Soprano" senza tener conto di cosa è accaduto al protagonista nelle stagioni precedenti. Il consiglio, dunque, è di recuperare l'intera opera "Everywhere At The End Of Time", esponendosi al gigantesco percorso musicale che conduce dai primi flebili sintomi all'opprimente, misteriosa conclusione che abbiamo qui analizzato. Questo, in fondo, è solo l'eccellente finale di un percorso più lungo, che merita di essere conosciuto per intero.
Questo monumento alla memoria, alla morte, alla nostalgia e ai ricordi, mai così urgente come nell'epoca che stiamo vivendo, è da ascoltare col cuore e con la mente, accompagnandolo magari alla lettura di "Ghosts of My Life: Writings On Depression, Hauntology And Lost Futures" del compianto Mark Fisher, che proprio in The Caretaker aveva individuato uno dei più originali, peculiari artisti del nostro tempo.
12/11/2019