Dopo una tragedia di portata universale ogni parola assume un diverso peso specifico, e nessuna di esse risulta capace di colmare la voragine di silenzio creatasi tutt’intorno. Il secondo e il terzo millennio dopo Cristo sono stati divisi, spezzati quasi esattamente l’uno dall’altro per mezzo di un evento così dirompente da trascinarsi dietro un’infinità di analisi sociali, politiche ed economiche, inchieste e teorie del complotto – in buona sostanza, un oceano di parole assordanti, cumuli di rumore bianco che hanno soffocato, quasi sbiadito il fatto stesso. Tra queste, dopo tanti anni continua a pesare una dichiarazione del maestro Karlheinz Stockhausen, unanimemente ritenuta esecrabile, secondo cui la strage dell’11 settembre 2001 sarebbe stata “la più grande opera d’arte immaginabile nell’intero cosmo [...] Io non saprei farlo. A confronto, noi compositori siamo nulla”. [1]
Umanamente, e non artisticamente, tutti ci saremo sentiti annientati, per l’appunto nullificati, da quello che non fu soltanto un attacco diretto all’America – intesa come baluardo dell’impero economico occidentale, ed espressa per sineddoche nel “monumento” che ne simboleggiava tutta la contraddittoria complessità – ma che in un certo senso, come indicato da Jean Baudrillard e Slavoj ˇi˛ek, costituì la “distruzione simbolica di un intero costrutto della realtà.” [2]
Ma dalle ceneri e dalla coltre di fumo di Ground Zero è davvero sorta un’opera umilmente straordinaria, la cui sorgente primigenia non ha nulla a che spartire coi suoni e le immagini dell’11 settembre, ma che in seguito al crollo delle Twin Towers ha acquisito il suo significato più profondo, come per mezzo di una serendipity che d’un tratto getta luce nuova sulla realtà, per quanto drammatiche siano le circostanze della sua genesi.
È con “The Disintegration Loops”, infatti, che ha inizio la fortuna artistica di William Basinski, variamente impegnato nella scena sperimentale newyorkese sin dagli anni 80, periodo in cui comincia a incidere tracce audio su nastro magnetico, creando un archivio di found sounds catturati da programmi radiofonici e di brevi frammenti strumentali da lui stesso eseguiti col sassofono o il clarinetto.
Racchiuse per oltre un ventennio nel silenzio di uno scatolone etichettato “The Land That Time Forgot” ("La terra dimenticata dal tempo"), un destino imprevedibile ha voluto che quelle registrazioni trovassero il loro fine ultimo soltanto nel 2001, poche settimane prima che i due jet si scagliassero contro il World Trade Center. In quel periodo Basinski decide di convertire il suo archivio analogico in formato digitale, conscio del deterioramento cui i nastri, prima o dopo, sarebbero inevitabilmente andati incontro.
Così ho messo questo loop sul Revox e l’ho acceso, ed era semplicemente così austero, così bello e maestoso. [...] Sono andato ad accendere il mio sintetizzatore Voyager, l’ho modificato e mi è venuto questo controcanto dall’arpeggiato casuale, con un suono simile a un corno francese, ho acceso il registratore, impostato i livelli e iniziato a registrare. Sono andato a preparare una tazza di caffè in cucina, sono tornato ad ascoltare, e ho iniziato a notare che qualcosa stava cambiando. Tutt’a un tratto, ho guardato e si vedeva la polvere nel percorso del nastro. [...] Mi sono seduto lì, ascoltando questa meravigliosa melodia, decaduta nel corso di un’ora in maniera così affascinante. [3]
Come un’inattesa rivelazione, Basinski si trova dunque a essere testimone in prima persona di una musica che sta cadendo a pezzi, si sta sfaldando nelle sue stesse fondamenta, sta morendo. Una semplice melodia di appena sei secondi e mezzo, soffusa e rincuorante, si intreccia ad infinitum con una seconda linea variabile, costituita da cellule tonali il cui timbro evoca gli ottoni di un’orchestra. Una volta predisposte le singole tracce in sovrapposizione, l’artista si fa volontariamente da parte affinché la musica diventi un’entità autonoma, in grado di assumere un’intensa carica malinconica nel suo progressivo e randomico degradarsi, rigenerandosi e disfacendosi al contempo per mezzo della ripetizione. Il suo canto sommesso e autoriferito “è soltanto un frammento da trasmissioni radio sconosciute, oscure a tal punto che lo stesso Basinski non è in grado di ricordarne l’origine esatta” [4], un dato che riconferma l’assoluta estraneità dei materiali audio agli eventi cui è stato successivamente associato.
L’esito di tale oggettivazione sonora segna la nascita di un’opera – intesa nella specificità della tetralogia “The Disintegration Loops” come dell’ampio corpus musicale che ne è scaturito sino ai giorni nostri – la cui elementarità tecnica è direttamente proporzionale alla mole di implicazioni concettuali ed emozionali a essa legate. Benché siano infatti riconoscibili certe affinità col phasing del primo Steve Reich (“It’s Gonna Rain”, “Come Out”) e con la “Discreet Music” di Brian Eno, nei loop di Basinski si realizza un processo che è assieme additivo e sottrattivo: da un lato la polvere che si è depositata nel tempo scorre tra i binari producendo suoni di superficie – fruscii, crepitii e “ipertoni” – che assieme all’effetto di riverbero alterano sensibilmente la linea melodica principale; dall’altro il logoramento dei nastri crea vuoti acustici irreparabili e sempre più estesi, così che “solo gli elementi più forti e timbricamente più chiari delle voci vengono trattenuti, risultando in una transizione da linee in legato a ‘fitte’ più percussive di materia tonale, e da ultimo scoppi di rumore verso la fine del brano.” [5]
È stato soltanto più in là negli anni che mi sono accorto in prima persona di come certi effetti psicoacustici derivati dal progressivo logoramento analogico abbiano influito sulla mia esperienza d’ascolto: nel solenne incedere del brano, tra gli strati armonici in lenta decomposizione, inizialmente ho sempre creduto di riconoscere una voce che ripeteva come un mantra poche semplici parole – “It’s over now”. A maggior ragione, dunque, nella mia percezione “d|p 1.1” voleva essere una nenia confortante a beneficio di chiunque si trovasse nella sofferenza, quale che fosse la sua causa.
Possiamo solo immaginare lo sgomento della popolazione di New York, alla luce del giorno, di fronte a una scena che aveva tutta l’aria di un’apocalisse in diretta, condivisa a distanza dal mondo intero, incollato ai televisori accesi sulle edizioni straordinarie dei notiziari. Quel giorno la metropoli si è fermata, l’orrore e il senso di impotenza hanno preso il sopravvento, e anche William Basinski ha avvertito la necessità di darne testimonianza con la propria telecamera: verso sera, salito sul tetto della propria abitazione a Brooklyn, l’artista ha puntato l’obbiettivo verso la scena della distruzione, da una prospettiva sopraelevata e su un piano orizzontale, replicando – forse inconsciamente – la lunga inquadratura fissa che Andy Warhol effettuò di fronte all’Empire State Building nel 1964 (“Empire”), in perfetta linea di continuità con quello che era “il [suo] tema preferito nel fare cinema – semplicemente osservare qualcosa che accade per circa due ore.” [6]
Nel video di Basinski lo schermo, anzi il tableau, si presenta da subito diviso in due parti sfumate in linea diagonale: la densa coltre che emana dalle ceneri del World Trade Center interrompe la placida scala cromatica di un cielo altrimenti limpido. Con un effetto straniante simile a “L’impero delle luci” di René Magritte, un’ombra si espande dal basso e inghiotte metà dello skyline in una notte prematura e soffocante, dove anche le consuete illuminazioni artificiali sono come occhi vuoti e stanchi, impotenti di fronte al destino. Anche in questo caso, evidentemente, si compie un’oggettivazione di carattere visivo, laddove “nonostante la gravità di ciò che si sta svolgendo di fronte ad esso, l'obbiettivo registra i toni luminosi del cielo mentre svaniscono al tramonto.” [7]
Se fino a qui il destino ha giocato un ruolo determinante per la nascita dei “Disintegration Loops”, è all’indomani della strage che l’opera giunge a compimento attraverso la sensibilità umana e artistica di Basinski: unite in un singolo flusso audiovisivo, la musica e le immagini sulle quali era intervenuto soltanto in maniera marginale prendono nuova vita, sono potenziate l’una dalle altre e divengono un’opera di struggente poesia, un coro di morte e resurrezione che trasfigura l’aftermath del mastodontico crollo.
La mattina dopo, quando l'ho guardato, ho messo su “Disintegration Loop 1.1”, mi sono seduto e l'ho allineato, ed era semplicemente commovente; ho capito che era un’elegia. Mi ha ricordato Jacqueline Kennedy, che indossò quell’abito di Chanel con il sangue del marito per un’intera giornata, e tutti cercavano disperatamente di farglielo cambiare, e lei disse: “No... voglio che vedano quello che hanno fatto a Jack”. [8]
Il primo album del progetto, pubblicato nel 2002, è completato dalla sezione “d|p 2.1”, che apre la strada a una serie di variazioni più o meno riuscite su tale rivelazione: un brano di soli dieci minuti che, a differenza del precedente affresco impressionista, comunica incertezza e sospensione, un impalpabile senso di attesa; potrebbe essere, questa, la colonna sonora dei giorni seguenti la catastrofe, tra gli ultimi soccorsi dei pompieri e della Croce Rossa, il vertiginoso bilancio delle vittime, il calvario in ospedale dei superstiti, il preludio di una guerra dichiarata. Come a chiusura di un cerchio, il quarto e ultimo disco edito nel maggio del 2003 è dedicato per metà a due possibili reprise del tema fondante, eco duratura di un’opera che oggi fa parte della collezione permanente del National September 11 Memorial Museum, a fianco dei reperti sottratti alle macerie di Ground Zero – stralci da migliaia di esistenze che non possono mancare di toccarci nel vivo.
Lo stesso tema è stato trascritto ed eseguito in alcune occasioni come un brano di stampo classico. Nell’ottobre 2008, alla 54. Biennale Musica di Venezia, una versione più lenta e dal sapore tardo-romantico, per certi versi simile al naufragio del Titanic messo in musica da Gavin Bryars (The Sinking Of The Titanic, 1969-1972). In seguito, nel decennale della tragedia, al Metropolitan Museum of Art si è tenuta la première dell’arrangiamento orchestrale a opera di Maxim Moston, collaboratore di Antony Hegarty: la Wordless Music Orchestra dà corpo a una commossa fanfara funebre dove ottoni e percussioni marziali sono gli elementi di carattere primario, mentre archi e vibrafoni tracciano sfumature più sottili nelle retrovie.
Entrambe le versioni sono state incluse come bonus track nel boxset di Temporary Residence Ltd. del 2013: ma se da un lato indubbiamente conservano l’afflato solenne dell’originale, dall’altro non sono in grado di suggerire lo stesso effetto aleatorio di progressivo decadimento che ne costituisce l’essenza, tale da renderlo icona e paradigma della tape music di Basinski.
Ancor più che la pratica musicale hanno potuto l’intuizione e la compassione umana: pur non avendo voluto creare espressamente un epitaffio, “negli inciampi e nelle contingenze del far risorgere e distruggere il vecchio, Basinski aveva creato uno specchio necessariamente vuoto del nuovo, una colonna sonora stranamente prolettica per la prima grande scomparsa del ventunesimo secolo”. [9]
“The Disintegration Loops” non è soltanto un requiem per le vittime del 9/11 e, simbolicamente, per la civiltà occidentale, ma anche e soprattutto un monumento al senso di perdita e alla perdita di senso, una tenera consolazione nel momento in cui tutto sarà finito, così come la sofferenza che ci ha oppresso per un tempo che sembrava interminabile.
Note bibliografiche
[1] Estratto da un’intervista radiofonica tenutasi ad Amburgo il 17 settembre 2001, in occasione di un festival di quattro giorni dedicato alla musica di Stockhausen. In seguito alla trasmissione i concerti sono stati immediatamente annullati e il compositore ha lasciato la città senza rilasciare ulteriori commenti. ↑
[2] Paul Benzon, Archival Time, Absent Time. On William Basinski’s “The Disintegration Loops”, in Media-N, Spring 2015, v.11 n.01, ‘The Aesthetics of Erasure’ ↑
[3] Intervista di Lars Gotrich a William Basinski, Divinity From Dust: The Healing Power Of ‘The Disintegration Loops’, NPR, 15 novembre 2012 ↑
[4] Gareth Leaman, Memorials without mimesis: Abstraction and intertextuality in William Basinski’s The Disintegration Loops, 2015 ↑
[5] Eli Stine, Memory, Decay and Activism. William Basinski’s The Disintegration Loops, 2015 ↑
[6] Kenneth Goldsmith, a cura di, I’ll Be Your Mirror: The Selected Andy Warhol Interviews, Da Capo Press, 2004, 186 ↑
[7] Yusef Sayed, Of Mourning and Evening: William Basinski’s “Disintegration Loop 1.1”, 2016 ↑
[8] Emilie Friedlander, intervista a William Basinski, The Fader, 11 settembre 2012 ↑
09/09/2018