Per Fenne Lily il secondo album “Breach” è l’occasione giusta per svestire i panni della nostalgica folksinger e abbracciare una musicalità più completa. La malinconia e la solitaria bellezza delle composizioni della giovane musicista inglese sono ora macchiate da ombrose e oscure liriche, che nascono dal disagio, dalla sensazione violenta di sentirsi fuori luogo, fuori tempo. Il resoconto di relazioni fallite, la scelta di isolarsi, l’insorgere di paure e insicurezze, uno spirito beffardo, una mancanza totale di autocompiacimento sono gli incipit che nutrono l’apparentemente quieta e mai lamentevole disapprovazione di queste dodici canzoni.
La scelta di Steve Albini in cabina di regia chiarisce ancor di più le intenzioni della cantautrice, ovvero di non volersi adagiare sulle oniriche ambientazioni che ne caratterizzano lo stile, ma di voler scavare nel profondo di quelle emozioni e di quelle suggestioni che ne hanno finora stimolato la curiosità intellettuale e artistica.
E’ un insolito archetipo sonoro, quello di Fenne Lily: ci sono tracce dei primi Belle & Sebastian nel vivace pop-rock graffiato da distorsioni e ritmiche aspre di “Alapathy”, una feroce denuncia contro un sistema sanitario che spinge le persone ad abusare di farmaci. Un’energia sonora che contrassegna l’ancor più avventuroso e vibrante rock di “Solipsism”, acuta e pungente riflessione sulla metamorfosi della personalità in epoca di social media.
Una poetica avulsa da compassione e indolenza svela attitudini creative insolite, come i richiami alla magia sonora di Lucy Dacus, la cui presenza nella splendida “Birthday” consolida un trascinante flusso armonico che tra archi ed eleganti rifiniture vocali regala una delle più belle ballate dell’anno in corso, quasi un matrimonio tra i Pavement e Angel Olsen.
Fenne Lily non ha trascurato alcun aspetto di questo intrigante progetto discografico, che cresce a ogni ascolto e mette in campo un talento non comune. I pochi accordi ricchi di riverbero della fatata “To Be A Woman Pt. 1”, l’avvolgente pop-rock psichedelico alla Hope Sandoval di “Berlin” (chiave di lettura di tutto il progetto racchiuso nella frase "non è più difficile essere sola/ anche se dormo con la chiave nella porta") e l’incalzante e maliziosa ballata alla Aimee Mann “I Used To Hate My Body But Now I Just Hate You” sono esternazioni liriche e musicali di rara autenticità e personalità.
Sono note solitarie e meste, quelle che accompagnano il doloroso racconto dei sempre più difficili rapporti familiari in “Elliot”. Allo stesso modo Fenne Lily incornicia il bislacco dialogo con un ragazzo che preferisce la filosofia alla realtà attraverso sonorità in un continuo crescendo ricco di dinamica e consapevolezza dentro a “I, Nietzsche”, graffiando con flebile rabbia i riff quasi grunge di “Blood Moon”, prima di affondare nella dolcezza di un trittico finale che, pur adagiato su semplici armonie folk, possiede spessore emotivo (“98”, “Someone Else's Trees”) e suadente arrendevolezza (“Laundry And Jetlag”).
Con “Breach” la cantautrice di Bristol conferma di prediligere un suono e un linguaggio diretti e semplici, ed è proprio in questa potenza comunicativa priva di sovrastrutture che risiede la forza di queste dodici canzoni: una sequenza di appunti e crude meditazioni dalla struttura lirica densa e gentile. Il secondo album di Fenne Lily non è un disco adatto a cinici e disillusi, ma è confortevole quanto basta per catturare un pubblico variegato e crudo quanto basta per farsi amare senza riserve.
27/10/2020