E' un altro passo nella giusta direzione, quello intrapreso da Jeremy Tuplin. Un ulteriore tassello di un percorso evolutivo maturato durante l’intensa tournée tra Inghilterra, Germania e Italia; tour, tra l'altro, che ho avuto la fortuna d’intercettare in quel di Avellino nel concerto tenuto al Godot Bistrot.
Il terzo album del musicista inglese, “Violet Waves”, è un altro affresco dai toni surreali e deliziosamente imperfetti, una tragica e grottesca meditazione sull’inevitabilità dello scorrere del tempo, sulla fragilità dei sentimenti e sulla contemplazione del futuro come fuga dalla quotidianità.
Un'impertinente solidità espressiva prende corpo, grazie all’affiatamento di Tuplin con la band, alla quale spetta il roboante nome di Ultimate Power Assembly: un elemento che sposta l’asse di riferimento del musicista da potenziale cantautore rock, a vero e proprio leader di un gruppo. Volendo omaggiare la passione dell’autore per David Bowie, si potrebbe affermare che per “Violet Waves” Jeremy Tuplin abbia trovato i suoi Spiders From Mars.
L’album è un continuo avvicendarsi di stati emotivi in perenne conflitto tra urgenza e tranquillità: alle leggiadrie rock’n’roll di “Back From The Dead” spetta iniziare il viaggio più corposo del musicista, un percorso ricco di interessanti variabili che culmina nella lacerante ballata rock-noir “When I Die, etc”, il cui fragore armonico e melanconico raggiunge vertici finora noti solo ai Tindersticks e a Scott Walker.
L’animo cantautorale leggermente lunatico e malinconicamente trasognante dell’esordio “I Dreamt I Was An Austronaut” non è stato comunque sacrificato, anzi, è ancora più magico e onirico, pronto a liquefarsi nelle felpate e umide atmosfere di “Swimming”, dove il fantasma di Nick Drake incontra quella di Syd Barrett, né si è smarrita quella malsana psichedelia alla Velvet Underground pronta a riecheggiare nelle trame ipnotiche e ammalianti di “The Inuit”.
L’equilibrio tra grinta e poesia è quasi perfetto: Tuplin si destreggia con maggior disinvoltura e senza apparente sforzo, esemplare in tal senso la vivace spavalderia di “Killer Killer”, una canzone quasi kafkiana che racconta una storia d’amore tra un istrice e un cincillà; sagacia e solennità fanno invece capolino nella pungente digressione sul dualismo tra scienza e irrazionalità, immersa nelle grevi atmosfere di “The Idiot”.
“Violet Waves” è un album che graffia nelle viscere del rock con la stessa eleganza di Bowie (“Cool Design”), accenna incubi in stile Roxy Music che trasudano di romanticismo e decadentismo (“Break Your Heart Again”), dispensa prelibatezze psych-cosmic-folk da assaporare con calma (“Sally's In A Coma”), non disdegna sognanti trame jangle-pop (“Violets Are Blue”) e si concede al pop con toni agrodolci e fantasiosi (“Space Magic”).
Il terzo disco di Jeremy Tuplin è un disco completo e compatto, grazie al quale il musicista inglese porta a compimento l’evoluzione da autore cult a musicista di primo piano. La posta in gioco è alta, ma per l’artista di Somerset si sono aperti nuovi orizzonti e nuove prospettive, restiamo in ascolto.
10/08/2020