Ci sono voluti solo quattro minuti, quelli di “
You Don't Know How Lucky You Are”, per far sbocciare un amore senza fine, senza incertezze, senza ripensamenti, un bisbiglio folk-blues sofferto e silentemente rabbioso che ha dischiuso le porte del mondo artistico di Keaton Henson. Pittore, poeta, e musicista per puro diletto personale, il trentaduenne inglese, pur avulso dal rispettare regole e cadenze produttive ben definite, è diventato uno degli appuntamenti musicali più attesi, una delle esigue certezze nell’affollata e policroma produzione discografica contemporanea.
Anche se è giunto a distanza di un solo anno da “
Six Lethargies”, il nuovo album, “Monument”, segna un capitolo importante, nonché atteso dai fan, essendo il primo disco di canzoni a quattro anni da “
Kindly Now”. Undici brani per 45 minuti: un doloroso resoconto della lunga malattia del padre, un progetto coraggioso per un artista introverso e inquieto come Henson.
E’ un racconto reso ancor più pungente e amaro dai frammenti di immagini rubate alla felicità dell’infanzia che accompagnano “Prayer”, brano che assume un ruolo catartico per gli avvenimenti che fanno da sfondo a “Monument”, scivolando dalle parole di speranza e di momentaneo sollievo (“lo so che sta finendo ma sono sulla via della guarigione”) all’impietosa realtà del distacco (“parla, ti sto perdendo”), ultimo pensiero prima che una sezione di archi avvolga quella disperazione, quel pianto, quel trauma, quel senso di vuoto che lascia un sapore agrodolce sulle labbra, mentre con voce flebile l’artista raccoglie l’ultimo saluto affettuoso del padre (
"Keaton saluta papà"), lasciandosi cullare dall’oblio che segue al dolore.
Nessun autocompiacimento né autocommiserazione: per Henson “Monument” è l’album della rinascita, di una nuova fanciullezza, quella che con delicata tristezza è riassunta nella copertina raffigurante un cagnolino di ceramica dall’espressione affranta, consapevole, ma anche nella ribellione emotiva di “While I Can”, brano posto a seguito di “Prayer”, che oltre a essere una delle canzoni più estroverse e vivaci del musicista, è anche un’esternazione di sentimenti vissuti senza nostalgia e rancori: "Voglio dirtelo ora che respiri, voglio amarti finché posso farlo”, canta Henson mentre il ritmo incalza, cresce.
In “Monument” l’artista mette a frutto tutta l’esperienza maturata nei due capitoli interamente strumentali della propria discografia, “
Romantic Works” e “Six Lethargies”. Allo stesso tempo introduce nel proprio ambito creativo musicisti di spessore come
Philip Selway dei
Radiohead (batteria e percussioni),
Leo Abrahams (chitarre) e Charlotte Harding (sax), forzando i confini della malinconia e del dolore con l’ausilio di organi, sintetizzatori,
drone-music ed elettronica vintage, strumenti che donano un insolito spessore (Keaton ha nel suo curriculum anche un disco di musica elettronica sotto il nome di Behaving).
A beneficiarne sono le pagine più immediate e appassionate di “Monument”,
in primis “Husk”, una ballata a tempo di valzer che è senza dubbio la canzone più romantica e immediata mai incisa dall’artista. Anche gli episodi più introversi sono attraversati da una luce nuova: il suono dell’organo che anticipa la melodia ariosa e contagiosa di “Ontario”, l’empatica dolcezza ricca di poesia alla
Jeff Buckley di “Ambulance” (“sono per metà un autore di canzoni, per metà un uomo, e non del tutto”).
Una scrittura sempre al di sopra della media tiene salda una musicalità che si nutre di sobria malinconia, di vulnerabilità umana, di nuove metafore, di dubbi e inquietudine. Le meste “Self Portrait”, “Career Day“, “Bed” e la struggente ballata pianistica “Thesis” raccolgono l’eredità delle pagine più cupe e introverse dei precedenti album, senza essere in contrasto con le più vivide immagini sopracitate.
“Monument” è l’album più completo e articolato del musicista londinese, un disco che si nutre del dolore più estremo nel piccolo capolavoro di quattro minuti e mezzo di “The Grand Old Reason” (“anch’io come te non so dove andremo quando moriremo, così ci aggrappiamo disperati con le dita alla nostra vita”), si distende sul dolore più estremo (“Prayer”), racconta di guarigione (“Ontario”), speranza (“While I Can”), fino al liberatorio finale di “Bygones”, ultima liturgia di uno dei dischi più commoventi e intensi che ascolterete quest’anno.
Scrivo canzoni per svegliarmi
Ogni percorso fa a pezzi il mio cuore
Sono già in piedi
Dove altro mi vuoi?
Potrei anche tenere i miei demoni
Ho ragione o ho torto?
Mi stanco di tutte le mie canzoni
Non cantare le parole, leggi solo tra di loro
Suono finché le mie dita non sanguinano
Solo per tirarti fuori da me
Solo per portarti su quelle pagine
Ho scritto una sinfonia
Solo per distrarmi da tutto ciò
che ho fatto
Non voglio essere il migliore
Sono stanco, lasciami riposare
mi arrendo
ho intenzione di vivere se mi uccide