L'attacco di “A bolyongás ideje” non potrebbe essere più paradigmatico del cambio di rotta: l'attitudine progressiva si fa ancora più marcata, le linee di chitarra entrano in scena sin dai primi fraseggi, la miscela strumentale acquisisce un nuovo dinamismo, rimarcato anche dalle potenti alternanze vocali. Archi, flauti, citera e darbuka (non faticherete a rintracciarne i richiami levantini nel mezzo dell'impeto metallico di “A valóság kazamatái”) costruiscono solidi fraseggi melodici, sposano la dimensione folk con una completezza lessicale che passa da arcane fiabe balcaniche (i richiami ancestrali alla Lüüp di “Számtalan színek”) a limpide ascendenze jazz (l'intera sezione centrale di “Tsitsushka”, tra le più audaci composizioni di Kátai), senza disdegnare peculiari spigolosità folktroniche. Da lì che l'elettronica riempiva interi brani col fare di suite berlinesi, qui assume per l'appunto forme più ibride, diventa anticipazione del successivo tracciato melodico, ripescato attraverso richiami simil-bolero (“Embersólyom (Kalaka)”, che viaggia sulle note della memoria), oppure si tramuta in brillante coda d'atmosfera, pronta a stemperare all'improvviso i moti più impetuosi del tracciato principale.
Nel mezzo di tutto, la matrice progressiva di Thy Catafalque si evidenzia con assoluta facilità, si intrufola anche nei momenti apparentemente più piani, donando a ogni singolo brano prospettive multiple in cui rispecchiarsi. Nell'affinarsi di questo approccio (che già veniva introdotto nei maestosi cataclismi di “Tűnő idő tárlat” sedici anni addietro) l'arte del musicista ungherese ha subito continui cambiamenti di tono e significativi strappi di umore, ma ha avuto modo di fiorire nel suo sfaccettato linguaggio, tanto duro e possente quanto suadente, ricco di colore e storia. Fedele a un percorso di rara personalità, Tamás Kátai aggiunge un nuovo avvincente capitolo al suo ampio libro sonoro.
(28/04/2020)