La pittoresca combinazione tra sonorità
psichedeliche olandesi e ritmi
funkeggianti mediorientali, unita alla folcloristica fermezza di scrivere e cantare i testi delle canzoni in turco, ha sempre caratterizzato (e intrigato) la proposta degli Altin Gün, formazione con sede ad Amsterdam, costituita da ex-membri del giro di
Jacco Gardner e alcuni artisti provenienti dalla scena
psych delle antiche terre ottomane.
“Yol” è il titolo del terzo album che segue l’ottima prestazione esibita in “
Gece” (2019), ed è subito evidente la profonda trasformazione stilistica che Verhulst, Ecevit e soci hanno deciso di apportare al caratteristico
sound, in passato arrivato a guadagnare una
nomination ai Grammy Awards.
I suoni funk psichedelici sono stati avvolti da impreviste sequenze
new wave; l’uso massiccio di sintetizzatori,
drum machine ed effetti sonori
whoosh, all’interno di strutture che conservano l’accattivante fascino proveniente dalle lande bizantine, sulla carta potrebbe rivelarsi un azzardo. Gli Altin Gün miscelano alla perfezione tutte queste commistioni con grande maestria, senza mai eccedere in preziosismi inutili e colorando di vesti imprevedibili melodie che assumono inaspettata efficacia.
L’album si apre con una sequenza di brani di assoluto rilievo. Dopo una breve introduzione, si salta direttamente nella new wave con "Ordunun Dereleri", che trascorre il suo primo minuto con il synth attanagliato a una drum machine, per poi sfociare su tramonti arabeggianti, enunciati dalla voce pulita di Erdinc Yildiz Ecevit, mentre la traccia successiva, "Bulunur Mu", padroneggia un sintetico ritmo pop digitale, sorretto da un riff di chitarra di chiara ispirazione surf-rock e dalla voce staccata di Merve Daşdemir.
In "Hey Nari" si ritorna con grande verve alle classiche atmosfere apprezzate nei dischi precedenti: percussioni funk, un basso rimbalzante e assoli lisergici di chitarra riportano alle ambientazioni di “Gece”, anche se i sintetizzatori fanno brillantemente capolino qua e là, piegandosi però verso uno stile dai lineamenti
yacht-rock. Ma è solo un piccolo inciso, perché in “Yüce Dağ Başında” ci si rituffa negli Ottanta, con un taglio trascinante dal vago eco
Human League, sorretto dalla sempre possente linea di basso dell’ottimo Verhulst.
I groove psichedelici si fanno strada in “Kesik Çayir”, con coda strumentale ragguardevole e sempre più a proprio agio nelle inserzioni di nuovi contesti eighties, per poi aprire la scena alle note di basso funky che si insinuano in “Kara Toprak”, con serpeggianti accordi di chitarra anni 60, a loro molto cari.
"Sevda Olmasaydi" manipola nuovamente tinte psichedeliche con inserti di saz - liuto a manico lungo chiamato anche chitarra saracena - sintetizzatori e persino un theremin.
“Yekte”, “Esmerim Güzelim” e “Maçka Yolları” accompagnano al termine dell’album, cementando l’impressionante evoluzione che ha portato il gruppo a incorporare, con estrema perizia, ulteriori generi musicali agli abili accostamenti utilizzati fin dagli esordi.
Una scommessa vinta, quella degli Altin Gün. L’inserimento di venature new wave e la fusione delle stesse con le loro complesse e tipiche trame poteva rischiare di stravolgere l’approccio che li aveva contraddistinti e portati a ottenere meritate attenzioni; averle dosate con grande specificità e inserite dove opportuno resta il traguardo più riuscito, sintomo di una band in grande salute e con idee chiare su come valorizzare, anche in futuro, il proprio progetto artistico.
02/03/2021