Frontman della band garage-rock-psych Wand, giocoliere nel delizioso singolo inciso con
Ty Segall e autore di un album solista dal piglio più folk (“The Unborn Capitalist Of Limbo”), Cory Hanson è un artista in continua metamorfosi. Dietro questa ecletticità creativa si nasconde un segreto e spetta al nuovo disco “Pale Horse Ryder” svelarlo.
La versatilità della scrittura non è mai stata così evidente come nelle dieci languide e delicatamente epiche tracce del nuovo progetto. Canzoni accantonate nell’arco degli anni, nell’attesa di una collocazione creativa consona, essendo ritenute dall’autore non adeguate al collettivo dei Wand.
”Pale Horse Ryder” è un disco che racconta di deserti, non quelli naturali e adatti alla contemplazione, ma quelli spirituali, che trascinano l’anima verso il silenzio anche quando è immersa in una marea di gente allegra e beata; non è infatti un caso che molte delle canzoni siano state scritte durante un soggiorno in un hotel di Las Vegas.
Hanson prende tra le mani la musica country, rubandole la dolcezza del suono della
lap steel e della
pedal steel, preferendo la compagnia di un violino al fragore di chitarra, basso e batteria, avviluppandone la grazia con una malinconica psichedelia che carezza e graffia. L’apparente incoerenza degli elementi messi in gioco dona una fluidità inattesa che tiene salda l’attenzione, ed è spesso difficile poter individuare qualche momento di debolezza o indecisione creativa.
I tre minuti e trenta secondi della ballata più intima ed elegiaca, “Limited Hangout”, e i quasi otto minuti dell’epico folk psichedelico, che cresce fino a trasformarsi in una ruvida
jam-session alla
Crazy Horse, di “Another Story From The Center Of The Earth” sono due lati della stessa medaglia: Cory Hanson è riuscito a dar forme alle ombre e ai chiaroscuri.
”Pale Horse Ryder” è un album baciato da un costante stato di grazia. Una canzone come “Angeles” ti sembra di conoscerla da sempre, quel tocco del piano che poi sul finale si tinge di jazz, e quel giro di chitarra acustica che si scioglie come neve al sole, hanno addosso tutta la magia delle melodie che da sempre albergano nel cuore. Lo stesso incanto è evocato dall’arpeggio che incornicia “Bird Of Paradise”, ballata distesa su un letto sonoro che fonde il languore del country con i
Genesis di “Trespass”, o dal lieve brivido soul della sensuale “Paper Frog”, e non accenna a dileguarsi nemmeno quando Hanson mette al centro la musica e allontana le voci (“Surface To Air”, “Necklage”).
Resta alfine solo un dubbio nella mente dell’ascoltatore: poter definire queste piccole dieci meraviglie con un unico aggettivo. La musica di “Pale Horse Ryder” non è country, non è psichedelia, non è rock, non è
prog, non è folk, non è neanche
chamber-pop nonostante la
title track, né venga in mente di citare il post-rock ascoltando le aspre malinconie di “Pigs” (
Thom Yorke goes acustic?). Cory Hanson ha solo lasciato fluire immaginazione e forza lirica, ed è un gran bel sentire.