Quando si tratta di nuove proposte musicali e artistiche che siano insieme valide e affascinanti, è ormai la Londra multietnica, quella dei quartieri un tempo considerati poveri e pericolosi, oggi inghiottiti dalla gentrificazione più spietata, a prevalere inevitabilmente su quella più tipicamente inglese. È laddove i cosiddetti immigrati di seconda (o terza) generazione ibridano l'inglesità alle spezie più ardite ed esotiche che incontriamo i sapori più intriganti che la vecchia capitale d'Albione possa offrirci oggi.
Uno di questi nuovi sapori è certamente quello del neo-soul di Joy Crookes. Classe 1998, un po' inglese, un po' irlandese e un po' bangladese, la talentuosa cantante soul è nata e cresciuta a sud del Tamigi, spostandosi tra le cupe e fibrillanti Lambeth ed Elephant And Castle.
A lungo indecisa su dove indirizzare il suo talento e le sue ricerche musicali, dopo aver iniziato a studiare blues e jazz, ancora tredicenne Joy ha esteso il suo raggio d'interesse verso il folk di Laura Marling. Molte cover della Marling ad opera di Crookes sono reperibili sul Tubo, insieme a tante altre che vanno da Frank Ocean a "Hit The Road Jack" di Ray Charles. La giovane musicista londinese arriva così al suo elegante debutto discografico (uscito per Insanity lo scorso 15 ottobre) con un background di influenze vario e sfaccettato quanto il suo codice genetico.
Pur fedele a un'impostazione neo-soul piuttosto classica, nel susseguirsi dei suoi episodi "Skin" assume sfumature e contorni che girovagano dal trip-hop al blues, passando per l'inevitabile alternative r&b e per un po' di rock'n'roll. Mai nulla di davvero innovativo o sorprendente, ma piccole variazioni sul tema sapienti ed efficaci, rese speciali da una vocalità calda, duttile e dominata straordinariamente.
Non fosse per il docile beat digitale che la innerva, l'opener "I Don't Mind" potrebbe ambire al titolo di instant classic soul, titolo che invece spetta alle ulteriori, crepuscolari riflessioni sulle difficoltà di un rapporto di coppia "To Loose Someone" e "When You Were Mine". Ritroviamo l'utilizzo dell'elettronica invece in una "Power" che innesca un crescendo gospel aizzata da violente folate digitali - qui il trip-hop è vicino più che mai, così come la Banks più digitalizzata.
Gli episodi più prossimi al rock e al funk sono i più spensierati e divertenti. Tra un'arringante e giocosamente politica "Kingdom" e una "Wild Jasmine" che si arriccia in un assolo di chitarra elettrica à-la Prince, preferiamo di gran lunga la seconda.
Grazie a un ritornello che, pur non mancando di originalità, evoca il fantasma di Amy Winehouse, "Feet Don't Fail Me Now" è l'unico brano di "Skin" ad aver sforato il tetto di 5 milioni di ascolti su Spotify. Sorte che dovrebbe toccare presto ad almeno altri tre brani.
Il vertice del disco non può però che essere la canzone in cui Joy mette tutto il cuore e, tra archi che si dispiegano come bruma e sinistri rintocchi elettronici, permette anche a chi non c'è mai stato di vivere il brulicante e vorticoso meltin' pot culturale di Elephant And Castle: "19th Floor".
Fermatosi per ora alla posizione numero 5 della classifica inglese, risultato non del tutto soddisfacente per una sussidiaria della Sony come Insanity, "Skin" è un disco estremamente maturo e forse troppo elegante per far davvero breccia verso il pubblico generalista. Alla Crookes si presentano ora due alternative. Continuare sulla strada intrapresa o ammiccare più apertamente al grande pubblico, magari urbanizzando ulteriormente la sua musica per incrociarne il gusto di quest'ultimo. Se da una parte siamo sicuri che la giovane cantautrice riuscirebbe in entrambi i tentativi, in cuor nostro speriamo che non ceda a tentazioni futilmente commerciali.
11/11/2021