Jazz per pianoforte solo. Detta così, può sembrare una di quelle trovate un po’ stucchevoli, buone per darsi un tono (“sai, ascolto il jazz”) o riempire le playlist “Focus”, “Calm”, “Meditation” da ascoltare con un orecchio sì e l’altro no.
Ma Nik Bärtsch non è il tipo. Dopo vent’anni e rotti di esplorazioni al confine tra minimalismo, poliritmie e ritualità, la rinuncia da parte del pianista svizzero al supporto degli altri strumenti non va certamente letta come una mossa in direzione easy listening. Piuttosto, è una sfida personale, una prova di maturità: rileggere brani storici, disseminati per due decenni di carriera, senza fare affidamento su altro che la propria espressività esecutiva.
Sarebbe impegnativo per chiunque: lo è doppiamente per Bärtsch, che sul rigore ascetico di stratificazioni e interplay ha costruito l’essenza della sua originalissima formula jazzistica, un connubio di densità e rarefazione che, in mancanza di etichette migliori, il musicista stesso ha battezzato “zen funk”.
A dirla tutta, Bärtsch non è nuovo a escursioni discografiche in campo solistico. Già nel 2002, con “Hishiryo: Piano Solo” si era lanciato in una simile impresa di auto-coverizzazione, con esiti accolti assai positivamente dalla critica specializzata. In quell’occasione, era stato osservato come le versioni puramente pianistiche, anziché risultare depauperate dal loro magnetismo, rappresentassero sguardi alla musica nella sua più essenziale intimità, e fornissero affascinanti intuizioni sul processo creativo dietro agli incastri strumentali di Ronin e Mobile, le due formazioni in cui l’artista esegue la sua musica.
Rispetto ad allora, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, e l’approccio delle reinterpretazioni è decisamente mutato. Sebbene alcuni brani siano in comune con l’esercizio del 2002, difficilmente si scorgono sovrapposizioni stilistiche. “Modul 13” (pressoché tutti i brani dell’artista seguono la titolazione “Modul” + numero) perde nella nuova uscita tutta la sua connotazione jazz-rock, per tramutarsi in un ammaliante studio sull’acustica del pianoforte e le sue risonanze spaziali. Anche nella nuova versione di “Modul 5”, altra scelta in continuità con “Hishiryo”, sono gli armonici dello strumento a dominare, e il fulcro del pezzo si sposta: dalla frenesia con cui è riproposto l’ostinato mono-nota, al sottile gioco di variazioni timbriche che permettono al suono di mutar volto costantemente tra una ribattitura e l’altra.
Altri episodi sono tratti da uscite più recenti: “Modul 55” è estratto da “Llyrìa” (2010), e riscopre ogni genere di “tecnica estesa” per creare nuova spazialità attorno alle note diradate che ne formano il tema; “Modul 26”, da “Aer” (2004), è forse invece la rilettura più in linea con l’originale — con la differenza non irrilevante di estendersi su quattordici minuti anziché su due. Percussiva e ciclica come un incontro tra Terry Riley e King Crimson, la traccia ritaglia un proprio tempo separato, in cui l’ordinario scorrimento è sospeso e trasformato in un luminoso equilibrio tra sviluppo e stagnazione. È un aspetto, questo della fluttuazione atemporale tra ripetizioni e mutamenti modulari, che da sempre caratterizza l’approccio di Bärtsch, e lo pone all’intersezione tra musicalità e misticismo. In questi quadretti per solo piano, tuttavia, l’effetto straniante ed estatico del suo stile compositivo risulta amplificato, e ciò avviene non tanto per la restrizione della gamma timbrica ma anzi per l’attenta ricerca da parte del musicista di modi per ampliarla assieme alla dinamica. Tecniche estese dunque, come lo strumming sulla cordiera, gli stop alla risonanza di alcune note e l’evidenziazione di armonici in altre; ma anche una attenzione acuita agli aspetti espressivi classici: volume, accenti, movimenti di pedale, ritardi e anticipazioni. Nel mondo del pianoforte jazz, Bärtsch è peculiare per il suo connubio di formalismo e spiritualità: in “Entendre”, per una volta, il secondo aspetto risulta essere il primo a catturare l’attenzione.
“Modul 58_12”, “singolo” di lancio dell’album, ibrida uno dei pezzi centrali dell’ultimo Ronin (“Awase”, 2018) con una traccia dall’esordio dei Mobile (“Ritual Groove Music”, 2001). Chiude la rassegna un inedito, “Déjà vu, Vienna”, il momento più impressionistico, breve e canonicamente melodico dell'album — non per questo però privo sia degli elementi modulari consueti per lo stile di Bärtsch, sia della ricerca acustica eterodossa che è il vero trait d'union di tutti i brani del disco.
In apertura si affermava: "Entendre" non è certo registrato per inseguire i consensi di un pubblico poco propenso alla concentrazione. Ma il suo effetto potrebbe proprio essere quello di catturare ascoltatori nuovi, pronti senza ancora saperlo a essere rapiti nel paradiso periodico e cangiante di uno dei musicisti più personali del panorama jazz.
13/04/2021