Tazze di caffè americano, libri e vorticanti estratti di filosofia francese, maschere mortuarie, facce di marmo, pezzi d'oro e d'alabastro, pigne, rami, foglie di bambù, gomma, mozziconi di sigarette, cartacce di caramelle, scarpe abbandonate nel deserto come oracoli sfingei, tra sabbia rossiccia, sterpaglie essiccate dalla luce appuntita del sole e un gigantesco pianeta gassoso che si staglia all'orizzonte. Classic Objects, referenti del Sublime romantico aggiornati all'era digitale o, più semplicemente, robaccia, relitti moderni dispersi su una distesa cimiteriale? Se ti chiami Jenny Hvaltutto questo può essere e non essere allo stesso tempo, a seconda della prospettiva con cui ti avvicini ai singoli enti. Eppure, al di là del significato che assumeranno, gli oggetti, corpi morti, non-viventi, che si affastellano nella tua mente formano sì un cimitero, ma di splendore e di potenziale espressione poetica.
At times, I have been
Obsessed witch connecting
To materials and textures
And I dreamt of having
A face made of marble
Nella title track del suo ottavo disco solista, Jenny Hval si abbandona a una libera meditazione sulla produzione artistica e sui legami che possono intercorrere tra viventi e non-viventi, tra la sfera dell'umano e quella del non-umano. Connettendo parti morte o riarrangiando oggetti appartenenti alla scenografia dei suoi concerti, Jenny cerca di entrare in contatto con la materialità dell'arte, rivivendo, fino a rovesciarlo, il mito di Pigmalione, diventando lei stessa oggetto d'arte, l'alabastro performato su un palco teatrale e perdendo così, transitoriamente, il proprio tratto semantico [umano].
Se "Classic Objects" si connota, in superficie, come il disco più accessibile dell'artista norvegese, è evidente, fin da un primo confronto con il suo nucleo filosofico e metariflessivo, che, dietro alla veste sgargiante e dichiaratamente pop degli arrangiamenti, si cela una nuova rete pulsante di pensieri complessi. Eppure, il disco eccelle nel riuscire a essere fruibile su più livelli, permettendo così sia di godere del piacere sensuale dato da un ascolto rilassato sia di apprezzarne l'aspetto letterario e altamente concettuale. Forse, ciò avviene proprio perché la compenetrazione di realismo e surrealismo è così riuscita da rendere illusorio il velo che li separa. E siccome non esiste più una soluzione di continuità tra le due dimensioni, scivolare da una di queste all'altra non è mai stato così facile, come viene splendidamente rappresentato nell'iconografia di copertina, sorta di fusione tra il reliquiario onirico di Dalì e lo scatto di un(a) fotoreporter di National Geographic.
Sul piano musicale la mescolanza di concreto e astratto si compie tramite la dinamica unione di una marcata ritmicità percussiva con i dilatati landscape che delimitano lo spazio sonoro. In questo modo si costruisce, ad esempio, il complesso racconto, vagamente autobiografico, di "American Coffee", dove la stasi ambientale iniziale si arricchisce progressivamente, dapprima con il pulsare vitale delle percussioni e successivamente con il vibrare sotterraneo del basso. Ma siccome si parla pur sempre di un disco (art-)pop, ecco che nell'incastro tra l'esaltazione palpitante del ritmo e le alture di paesaggi celestiali si inseriscono le efficaci melodie vocali.
Vivace e ironica come nel gioiellino d'apertura, "Year Of Love", distaccata nella controparte "Year Of The Sky", giocosa in "Freedom" o delicata in "Jupiter", la voce della Hval traina il flusso dei pensieri adattandosi di volta in volta al contesto. Non che l'uso sperimentale della voce umana sia un elemento di novità nella musica della norvegese, anzi, ma in "Classic Objects" l'esperimento sembra nascondersi soprattutto nella ricerca della melodia perfetta. Così nella canzone conclusiva "The Revolution Will Not Be Owned" assistiamo a un continuo cambio di registro dell'uso vocale, dal prosastico al grido tragico, fino alla sublimazione melodica scandita sullo scheletro della forma ritornello con cui si chiude non solo il brano, ma l'intera opera.
Cosa farne allora di tutti questi oggetti morti tumulati nelle tele di Morfeo, Mnemosine e Calliope e abbandonati in "Cemetery Of Splendour"? Un requiem per viventi, non-viventi e nature morte, risponde Jenny Hval con il field recording che conclude la composizione e a cui fa da contraltare la coda di "Jupiter", tra drone e ambient. Un esperimento, quello di "Cemetery Of Splendour", che rassomiglia a quanto stava facendo Cassandra Jenkins più o meno nello stesso momento dall'altra parte dell'Atlantico, registrando in "The Ramble" i suoni di un Central Park svuotato della sua alta densità umana a causa delle restrizioni sanitarie allora in vigore. Hval prova dunque a dare spazio alla voce del non-umano, cercando di raggiungere anche il non-vivente, e finisce così per creare una musica inclusiva, universale, a metà tra musica concreta e pop post-umano.
15/03/2023