Già quando si faceva chiamare Acetantina, Kaizo Ziad non aveva tardato a far parlare di sé, con una miscela al fulmicotone di footwork, trap e vaporwave, che quanto a frenesia produttiva di base non temeva paragoni nemmeno con capisaldi del settore quali Blank Banshee. Archiviato il progetto nel 2021, il producer libico ha abbassato parzialmente la maschera e col nuovo nome d'arte Kaizo Slumber presenta un nuovo lato creativo di sé. Non meno euforico, ma con i meccanismi concettuali ben sintonizzati sul carattere idealista di tanta elettronica anni Novanta, “The Kaizo Manifesto” si dispiega nei suoi temi ambientalisti e in una compattezza espressiva finora inedita, centrata su fraseggi hardcore dirompenti eppure fluidi, un linguaggio che non disprezza anche puntate verso breakbeat e house. Con nuovo slancio, il futuro immortalato dal musicista brilla di una positività luccicante, a suo modo fortemente contraddittoria, legata però a un'esaltazione che non lascia prigionieri.
Come per il passato moniker, anche a questo giro la brevità depone decisamente a favore dell'album. Mai più lungo del necessario, con una concisione che ben supporta il ricco concept narrativo (i titoli dei brani già lasciano intuire una successione di eventi) il progetto pesca a piene mani nelle pieghe più euforiche dell'hardcore-continuum, avanza come un razzo, fermandosi ad ogni tappa giusto per il tempo necessario.
È proprio così che ogni singolo episodio fa valere la sua specificità, che si presenta ben consapevole di quanto lo anticipa e segue: tra le superfici vitree di “Human, A Cosmic Horror”, drum'n'bass dissolta in un'irreale serenità, e la gommosità violenta di una “Cruel Earth Mother”, happy-hardcore tutta plastica e irruenza, Ziad costruisce un universo intero, che non manca di farsi esso stesso portavoce della propria storia, di un'utopia tecnologica non necessariamente andata a buon fine.
Riferimenti a un sistema culturale ampiamente sorpassato (una “You Wouldn't Download” che è pura virulenza breakcore), stacchi angelici conditi da sinistre nervature narrative (“Cyberpunks Aren't Dead”), brillanti revisioni della garage-house che fu (“Purple Is The New Green”): il producer ha chiarissimo il sistema di assi entro cui muoversi e non ha timore di indagare, di giocare con timbri e attitudini.
Ogni mossa non fa che deporre a vantaggio di un immaginario articolato di tutto punto, che sa sfruttare i suoi richiami senza mai rimanerne intrappolato. Per quanto distopica, se ti fa ballare in questa maniera, una simile tecno-ecocrazia finisce quasi per illuderti che possa valere un giro!
08/03/2022