L’analisi del nuovo album di Massimo Zamboni può partire senza dubbio dall’immagine di copertina che, come direttamente accennato dallo stesso musicista di Reggio Emilia, raffigura un Noolurin Sam, l’attrezzo utilizzato dagli allevatori mongoli per la pettinatura manuale del sottomantello delle capre e per la raccolta delle fibre che andranno poi a costituire il pregiatissimo cachemire. L’arnese appare in tutta la sua asprezza, arrugginito, umile, ma cardine irrinunciabile per ottenere uno dei tessuti più morbidi e costosi: due situazioni antitetiche fra loro - durezza e morbidezza - metaforicamente equivalenti ai paradossi che stanno caratterizzando molti aspetti tipici del nostro paese, sul quale Zamboni pone il proprio punto d’osservazione.
“La mia patria attuale” traccia una visione approfondita sulle correnti incapacità di un'Italia che non sembra più in grado di valorizzare il proprio immenso passato culturale e sociale, lasciato ormai quasi all’abbandono e dove l’importante termine “Patria”, la terra dei padri, viene sempre più utilizzato con faciloneria per interazioni persino irrispettose di quell’aureo significato.
Per la prima volta in carriera l’ex-Cccp e Csi si lascia trascinare pienamente nel mondo cantautorale, un territorio che non è mai stato tra i suoi preferiti, ma nel quale sembra finalmente accedere con attenta curiosità e assoluta padronanza. La capacità compositiva è sempre stata una delle sue doti più spiccate, non solo in musica - è pregiata la sua carriera parallela di scrittore – e in questo progetto il cuore pulsante del pensiero dello Zamboni cittadino italiano prende il sopravvento su tutto il resto.
La peculiarità che emerge all’ascolto è la determinazione nel lasciare gli arrangiamenti volutamente asciutti. L’artista appare, in questo scenario, addirittura più sicuro di sé stesso, abbandonando, per una volta, le spigolose dissertazioni sonore che in passato hanno rischiato di apparire quasi un gesto d’insicurezza dietro al quale nascondere la latente voglia di enunciare molto altro.
Prodotto da Alessandro “Asso” Stefana, storico chitarrista di Vinicio Capossela, “La mia patria attuale” è un disco intellettuale, quasi letterario, e se nella splendida “Canto degli sciagurati” e soprattutto nell’invettiva sociale di “Italia chi amò” riemergono flebili virgulti che rimandano agli schemi Cccp e Csi, in passi quali la title track e “Ora ancora” ecco germogliare il credibile seme dello Zamboni fine chansonnier, un po' rancoroso con la propria terra, ma altrettanto fiducioso di ribadire che in Italia sia ancora decisamente vivo quel talento che è poi sempre riuscito a far riemergere dalla precarietà d’intenti la grande qualità del nostro popolo.
In “Gli altri e il mare” quest’ultimo è visto come: “Un margine di gioia da traversare” e nella folcloristica ironia gucciniana di “Tira ovunque un’aria sconsolata” Zamboni lancia il proprio grido di speranza, fortificando la reazione partendo da piccole azioni: “Procediamo alla giornata sopportando la nottata”.
Se “Fermamente collettivamente” è un messaggio lanciato alla ricerca della smarrita coesione comune, lo spoken word di “Il modo emiliano di portare il pianto” è un’arringa sull’effimero successo ottenuto con l’inganno, in luogo del sudore, dell’onesta e dell’abnegazione.
Massimo è da tempo un punto di riferimento (anche se non lo ammetterà mai) non solo per quanto prodotto negli scorsi dorati decenni, ma anche per lo spessore che la sua arte sta ancora oggi generando in svariate configurazioni. “La mia patria attuale” arriva a circa dieci anni dall’ultimo suo effettivo lavoro discografico, un progetto che potrebbe segnare una linea di demarcazione tra passato e futuro, suggerendo all’artista reggiano un possibile nuovo percorso, più riservato, ma nel quale l’acuta qualità d’autore che è in lui sembra destreggiarsi con diffusa maestria.
25/01/2022