“Come la gente vive, così suonano le campane”. Un proverbio popolare ha in sé il dono della sintesi e l’adattabilità alle mutazioni del tempo, della società e tuttavia anche del suono come elemento aggregante. Financo in un’opera che punta a raccogliere le inflessioni dell’animo per farne canto libero dal rumore di fondo di un esterno appiccicoso nella sua lampante banalità. Sarebbe certo difficile immaginare le lancette inseguite da Sarah Davachi, intuirne gli scatti nel rintocco delle campane che annunciano l’avvento di “Two Sisters” in “Hall Of Mirrors”.
Gli specchi appesi al muro della sala del suono della compositrice canadese restituiscono un sentimento che è corteccia, linfa di un albero secolare, piantato in un giorno qualunque di un medioevo ambito in ciascuno dei nove movimenti. Un’epoca che è cara alla Davachi per le assenze, i silenzi necessari, le ombre che spiegano la luce.
La Burton Memorial Tower costruita nel 1936 e situata nel campus centrale dell'Università del Michigan ad Ann Arbor al 230 di North Ingalls Street, con il suo imponente carillon, il quarto più pesante al mondo, di campane ne contiene ben 53 per un peso di 43 tonnellate. Ed è per la Davachi l’obelisco figurato da cui diffondere una calma apparente. Mentre viola, violoncello, violino, organi, flauti e ottoni fluttuano nel vento, in un campo senza foglie. Come ad esempio in “Icon Studies I”, con Johnny Chang, Andrew McIntosh, Judith Hamann e Rebecca Lane in assetto “orchestrale”.
In “Alas, Departing”, la mezzosoprano Jessika Kenney rievoca a mo’ di Lì Ban l’impeto di un sacrificio perduto, per l’esattezza l’umore afflitto di “Alas Departynge Is Ground Of Woo”, canto del Quindicesimo secolo.
L’amore per l’organo a canne della Davachi, ampliato in giro per il mondo, nello specifico in chiese e cattedrali di Chicago, Amsterdam, Vancouver, Copenaghen e in particolare Los Angeles, città in cui la musicista di Calgary vive e lavora da anni, impera nei dieci minuti scarsi di “Vanity Of Ages”, nomen omen di uno sguardo critico verso l’esterno di cui sopra. Il bronzo e il verde sono poi i colori immaginati nelle suite “Harmonies In Bronze” e “Harmonies In Green”, poste al centro del piatto e una dietro l’altra, a dilatare la visione espansa di una quiete che libera e salva.
Se in opere più recenti della musicista canadese, come “Cantus, Descant”, c’è sempre un orizzonte che appare e scompare, in “Two Sisters” la linea di confine è immobile e demarca con grazia uno spazio più ampio. Ne è prova la quiescenza da tappeto che “arreda” ovunque un album volutamente espanso. E ne è riprova la coda, “O World And The Clear Song”, con la sua stasi immanente.
10/10/2022