Craven Faults non è solo un progetto artistico, tra l’altro sempre avvolto nel mistero su chi sia o siano effettivamente i reali protagonisti. Irrompe nella sperimentazione elettronica a gamba tesa, riprendendo alcune reminiscenze estratte dagli storici archivi del settore per proiettarle verso una nuova modalità di intendere queste espressioni. Forse la più vicina alla realtà è quella che colloca Craven Faults nella cosiddetta progressive-electronic, un genere basato sull’intreccio di suoni provenienti dai sintetizzatori, che si concentra sullo sviluppo di composizioni di lunga durata e trae ispirazione da varie fonti come, appunto, il progressive-rock, il kraut-rock e l’ambient.
Si farebbe un errore a omettere che anche in questo sophomore, intitolato “Standers”, non ci siano riferimenti che passano dal minimalismo all’elettronica post-industriale, per arrivare alla techno, con bordoni ipnotici sui quali estendere queste enormi ambientazioni armoniche.
Si diceva del mistero che si cela dietro Craven Faults. Di sicuro si tratta di un sodalizio inglese, che preleva il proprio identificativo dall’omonimo gruppo di faglie crostali situate nell’area nord-britannica dei Pennini, che costituiscono una zona che attraversa la spina dorsale dell'Inghilterra da Ovest a Est, tra il Lancashire e il Nord Yorkshire. Quest’informazione geografica e geologica è determinante, perché il fulcro del lavoro di Craven Faults è proprio quello di documentare la storia della terra d’Albione attraverso paesaggi e territori originari di quella zona, che trovano nelle metriche strumentali il perfetto approdo acustico per i contributi visuali e ambientali d’accompagnamento.
Rispetto all’ottimo esordio full length “Erratics & Unconformities” (2020), Craven Faults applica alcune variazioni stilistiche che mantengono alto il grado ipnotico della proposta, preservando anche le asprezze e la ripetitività tipica di queste stratificazioni elettroniche. Ciò che si intravvede, rispetto al passato, è la volontà di prevedere maggiori variazioni ritmiche irregolari, che hanno il pregio di alleggerire un carico percettivo decisamente impegnativo.
Se si eccettuano i sedici abbondanti minuti dell’opener “Hurrocstanes”, che nelle sequenze finto-motorik rappresenta la classica eccezione che conferma la regola, collocandosi come un’appendice dell’album precedente o dei contenuti espressi nei validissimi Ep publicati prima e dopo il disco d’esordio, nella successiva “Severals” si scorgono inedite aperture al minimalismo dance, situazione che vede la sua massima espressione nella lunga e sensuale suite “Meers & Hushes”, dove semplici linee di sintetizzatore creano melodiosi e onirici reticoli.
E’ palese come “Standers” sia una portata da assumere con buona predisposizione e attenzione ai particolari. Diversamente, sarebbe praticamente impossibile restare attaccati alle evoluzioni quasi psichedeliche e alle continue manipolazioni protratte nei diciotto minuti di “Sun Vein Strings”, forse il momento hype del disco, per carica emotiva e tentativo di estromissione dalla realtà.
Le cadenze astratte di “Idols & Altars” sono confezionate con quello che mai ti aspetteresti di scorgere in lande di questo tipo: le note del pianoforte spezzano e levigano sorprendentemente la rarefatta e oscura atmosfera.
Il disco si chiude con “Odda Delf”, il primo assaggio distribuito da Craven Faults, un epitaffio corposo, ritmato, inquietante e anche sedativo, che sembra instillare nell’ascoltatore qualcosa di sinistro e allo stesso tempo rassicurante. Un’ottima chiusura per l’ennesima esemplare prova di Craven Faults, complessa, ardua, forse più accessibile rispetto al materiale passato: un album che rappresenta una vera e propria esperienza, da gustare ad occhi chiusi, tutta d’un fiato.
28/05/2023