Un’autobiografia speculativa. La mette proprio così Daniel Lopatin per definire “Again”. Ma il suo è, a quanto pare, solo un modo elegante per smarcarsi dalla totalità di un’opera indescrivibile, imprevedibile, gioiosa, epica, folle, curiosa, magica e così via fino alla notte di San Silvestro.
Non ci si può credere, innanzitutto. Perché “appena” tre anni fa con “Magic Oneohtrix Point Never” il compositore americano sembrava ormai aver riposto il cilindro e divorato al barbecue anche l’ultimo coniglio, aggrappandosi troppo a un’elettronica sperimentale in parte al dessert. E invece, tre anni dopo, Daniel se ne esce con tredici movimenti, quattordici per chi desidera il vinile, che inscenano tutto ciò che si potrebbe desiderare oggi da un disco di elettronica altra, avanzata, Hd, deconstructed, concept-tronica: chiamatela come vi pare.
Per farlo Lopatin ricomincia, ecco spiegato “Again”, dal Giardino di suoni in cui aveva deciso di azzerare ogni cosa nel 2015. Dunque dall’introspezione e dalla follia come paraventi di una visione sconfinata, che stavolta però fruga all’interno, negli angoli della memoria, lanciando l'ascoltatore verso una deriva digitale che è anche approdo analogico. E’ esattamente questo il primo dei miracoli di “Again”: nelle sue partiture ci sono i demoni e gli angeli incontrati dall'uomo negli anni trascorsi nel Massachusetts. Reminiscenze che lo portano ai dischi ascoltati con mamma e papà, ebrei russi emigrati dall'ex-Unione Sovietica, entrambi uniti da un amore infinito per la musica, a partire dalla fusion che non a caso spunta tra una (de)costruzione e l’altra.
C’è poi lo sguardo al finestrino: destinazione Brooklyn. Lo studio per le scienze archivistiche al Pratt Institute è esperienza trainante. Daniel è minatore e bibliotecario. Insomma, scova e cataloga. E a dargli una mano c’è un ensemble a mo’ di orchestra (fanta)scientifica, NOMAD, diretto e arrangiato da Robert Ames, in appoggio enfatico su tre tracce, e soprattutto Lee Ranaldo, Jeff Gitelman, Jamie Stewart e Nathan Salon, chiamati per controbilanciare umanamente la macchina Oneohtrix Point Never, in quella che risulta essere una balera futuristica di programmazioni, battiti e feedback.
I diffusori a basso costo per Pc d’annata che campeggiano nella copertina, tratta da una scultura creata da Matias Faldbakken e concettualizzata da Lopatin attraverso una fotografia di Vegard Kleven, restituiscono il gancio estetico di una percezione diffusa durante l’ascolto: è come se Oneohtrix Point Never avesse deciso di avvinghiarsi sugli elementi digitali per farne un carro di buoi utili ad arare un campo di rottami che diventano concime per far fiorire melodie, tempi, rumori e squarci chitarristici miracolosamente in linea con quella che resta una suprema paranoia collettiva. Perché descrivere i momenti dell’opera è attraversare Khazad-dûm dentro il robot EVE (Extraterrestrial Vegetation Evaluator) di WALL•E. Ma proviamoci lo stesso.
L’incipit orchestrale di “Elseware” è grazia bucolica, l’ultimo sorriso al mondo prima di imbattersi nei multiversi Lopatin. A partire da “Again”: cos’è? Si potrebbe rispondere come il sogno virtuale dei Visible Cloaks che sfiora l’approccio moogsploitation di Tomita. E “World Outside”? Blanck Mass con l’hula hoop. Paesaggi, paesaggi e ancora paesaggi di mondi impossibili. Poi all’improvviso “Krumville”, con Ranaldo e Salon in assetto dream-pop che affiancano Jamie Stewart mentre intona il ricordo di un amico fuggito via, lungo la strada che unisce Kripplebush e Samsonville. In “Again” predomina invece una "geografia" ancor più personale, tracciata su coordinate che Lopatin traduce con un’ondulazione di patch, filtri, sequenze e dissonanze.
In “Nightmare Paint” l’assolo (?) di Jeff Gitelman si inserisce superbo tra mille riflessi. E cosa dire dell’ingresso di Ranaldo sulle pulsazioni di “Memories Of Music”? Praticamente un pezzo fusion in alta definizione. E ancora risacche alla Washed Out in “On An Axis” che si disperdono con altri incroci noise tra Ranaldo e Salon.
La seconda metà del piatto è la parte "umana" del disco. E un saggio di cosmica meraviglia come la danza di “A Barely Lit Path” non può che essere la chiusura perfetta di "Again". Chiosa che sull'ultima facciata del secondo Lp è affidata alla bonus track "My Dream Dungeon Makeover": cinque minuti di luce filtrata attraverso un prisma elettronico. L’altra immaginifica ascesa di un musicista enorme, capace di ribaltare, a propria immagine e somiglianza, tutto e di più.
01/10/2023