“In tutto c’è stata bellezza”, titolo di un toccante romanzo di Manuel Vilas, ci sembra un modo perfetto per descrivere l’attuale stato dell’arte degli Xiu Xiu e la fase che il loro ormai longevo percorso di ricerca sta attraversando. Innanzitutto perché Vilas fa dell’elaborazione del dolore, come della consapevolezza liberatoria che ne deriva, la materia di una narrazione coinvolgente. Poi perché secondo lo scrittore spagnolo esistono nell’arte “due verità diverse, ma entrambe verità: quella del libro e quella della vita”.
“Ignore Grief”, ultimo album di Jamie Stewart e compagni, muove dalle stesse premesse. Da un lato provoca indirettamente l’ascoltatore a non ignorare il dolore, dall’altro si muove dichiaratamente sui due piani di una verità reale e di una verità immaginata. A ciascuno dei due mondi assegna una atmosfera, un suono, una voce (Jamie canta metà dei pezzi, Angela Seo l’altra metà), una intenzione. L’insieme delle due componenti raggiunge una sintesi particolarmente universale e contemporanea. Mai come oggi, infatti, l’espressionismo severo, potente, spigoloso degli Xiu Xiu sembra incarnare perfettamente lo spirito del tempo. Non nei suoi risvolti più cinici e superficiali, ma in quelli più consapevoli ed empatici.
Negli ultimi anni Jamie Stewart si è confrontato con l’immaginario morboso di David Lynch, portandolo alle estreme conseguenze. Succedeva nel 2016 con “Plays The Music Of Twin Peaks”: un punto di svolta, se si guarda col senno del poi a quell’avventura e al suo senso complessivo. L’ultimo album “Ignore Grief” da un lato ritorna sullo stesso terreno visionario, dall’altro sviluppa l’introspezione profonda e il continuo azzardo di equilibri sperimentato tre anni dopo in “Girl Basket Of Fruit”. Ne scaturisce una complessità indefinibile che sconfina in una sorta di classicismo perturbante, nell’avanguardia e nell’industrial. Il progetto sembra così raccogliere il testimone di una linea di scultori di suono che va dai Test Department agli In The Nursery, per fare due nomi tra tanti possibili, da Deerhoof fino ai più recenti incubi sonori di The Murder Capital e The Klinik.
Forti di questa energia, che è insieme sonora, estetica ed emotiva, Jamie e compagni tornano in Italia, dopo l’appetizer estivo al Disorder Festival di Olivero Citra, per ben quattro date. Suoneranno il 27 settembre al Biko di Milano, il 28 al Caracol di Pisa, il 29 al TPO di Bologna, infine a Torino, il 30 settembre ai Magazzini sul Po. Abbiamo rivolto qualche domanda a un Jamie Stewart acuto e autoironico, certamente felice di ritrovare l’abbraccio dei fan, per condividere con essi ogni forma di bellezza. Anche quella del dolore.
“Ignore Grief” è un album basato per metà su situazioni reali e per metà su una realtà immaginata. Questa contrapposizione fra i due piani, collegata a un contesto di elaborazione del dolore, mi ha immediatamente riportato a quello che dice Guy Debord sull’uomo moderno e sulla sua incapacità, derivante dalla sovraesposizione ai media, di cogliere la differenza tra reale e immaginario. Ritieni che le persone rimuovano il dolore perché hanno perso il senso della realtà?
Sicuramente oggi, molto più che nel passato, la tendenza da parte di tutti è quella di “disumanizzarsi” per non provare sofferenza. La dimensione virtuale ti fa essere connesso a qualcosa, ma disconnesso dalle negatività che non vuoi affrontare. È un uso palliativo dei media, che serve a farti credere che stai facendo qualcosa per te, mentre in realtà ciò che desideri è lasciarti alle spalle qualcosa di te. È una difesa come un’altra. Non vedi il dolore per non implodere.
In questo senso si potrebbe intendere la musica dell’album come una sorta di provocazione?
Mi sembra una prospettiva molto interessante. In un certo senso penso che possa estendersi un po’ a tutta la nostra musica.
Detto così, mi sembra quasi un riferimento al Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud. La musica può avere anche un valore catartico?
Sì, certamente. E come musicista e appassionato di musica ho sperimentato questa sua funzione. Credo però che possano esserci molte risposte su come esplorare il dolore attraverso l’esperienza estetica. Probabilmente tante quanti sono i linguaggi e in un certo senso anche le persone che ne fruiscono.
Parli di esperienza estetica. Tornando all’album, che tipo di esperienza di ascolto vorresti che scaturisse da esso?
Ogni nostro disco ha lo scopo di realizzare un mondo dal quale chiunque possa ricavare qualcosa di cui sentiva, più o meno consapevolmente, il bisogno. L’importante è che ci sia questo contatto fra noi e loro. Quello che ciascuno troverà nella nostra musica è una possibilità che lasciamo aperta.
Il lavoro sulla colonna sonora di “Twin Peaks” ha avuto una influenza sulla realizzazione di questo disco?
Il disco su “Twin Peaks” è stata la nostra prima avventura in un universo totalmente immaginario. È stato un grosso spostamento di prospettive, perché eravamo sempre stati abituati a trasporre in musica stati emozionali legati alla realtà. Naturalmente da questa esperienza abbiamo tratto una grande lezione, una evoluzione considerevole rispetto alle possibilità di esplorazione musicale accessibili agli Xiu Xiu. Anche per questo la metà di “Ignore Grief” è basata sull’immaginazione e l’altra metà sul mondo reale. Senza il lavoro su “Twin Peaks” non avremmo mai immaginato un concept di questo tipo.
So che adesso abiti a Berlino. Come vivi la differenza con Los Angeles? Ti manca?
Mi sono trasferito a Berlino l’anno scorso, quindi non posso fare a meno di mettere continuamente a confronto due città così grandi e dall’identità così precisa. E così diversa poi! Los Angeles mi manca da morire, ma non so se tornerei mai a vivere lì per così tanti, tanti anni. Nello stesso tempo, per quanto possa sembrare sbattuta, o triste, sarà sempre la mia città, l’unica che possa chiamare casa. Berlino è una partner responsabile e pragmatica, con un buon lavoro e tante belle qualità che ti danno sicurezza. Los Angeles è un amore tossico, folle, ma terribilmente attraente, con cui fai i numeri a letto, ma il giorno dopo potrebbe massacrarti insieme a tutta la famiglia.
Torniamo a parlare di musica e anche di dualità. Il disco precedente, “Oh No”, era tutto fatto di duetti, mentre qui dividi equamente la scena con Angela Seo. Da dove sono scaturite queste scelte?
Mi sa che adesso ti deluderò. Non è un aspetto al quale abbia pensato se non a cose fatte. Sicuramente c’è una ragione per cui entrambi i dischi hanno avuto un senso per me solo in quanto realizzati in un determinato modo. Magari è una coincidenza, anche se non credo. Una ragione ci sarà, ma non la conosco. Vediamo come sarà il prossimo disco.
Con voi comunque c’è anche David Kendrick che fa un lavoro molto interessante sul fronte percussivo. Com’è lavorare con lui?
Figurati che suonavamo insieme quando eravamo ragazzi. È sempre stato molto gentile nei miei confronti. Un paio d’anni fa, saranno stati vent’anni che non ci si vedeva, l’ho beccato in una galleria d’arte e gli sono corso incontro. Da lì ci siamo ritrovati e abbiamo cominciato a registrare delle cose assieme. È stato tutto molto spontaneo, come se fosse tornato il feeling delle origini e il tempo non fosse mai trascorso.
David suonava con i Devo. Cosa pensi della loro devolution theory? Ne sei mai stato influenzato?
Vorrei avere una macchina del tempo e andare nell’universo parallelo a vedere se hanno ragione.
In materia di reference è appena uscita una vostra bellissima cover di “The Passenger” di Iggy Pop. Sei fan di Iggy?
Direi che si tratta della cover di una cover. Si riferisce alla reinterpretazione che del pezzo aveva fatto Siouxsie nell’album di rifacimenti “Through The Looking Glass”. La Cleopatra Records, per cui abbiamo già fatto dei remix in passato, ci ha chiesto se avessimo voglia di farla e siccome siamo fan dell’etichetta, di Iggy e di Siouxsie & The Banshees abbiamo detto subito di sì. Un altro pezzo che canta Angela!
I nuovi pezzi hanno un suono diverso sia da una certa parte del vostro materiale precedente, sia dai linguaggi del rock. Avete previsto un particolare restyling del repertorio passato?
Sì, come per ogni tour. È una sfida creativa di cui siamo debitori alla gente che viene a vederci. Sono 20 anni che suoniamo insieme e ci sono persone che ci seguono da sempre. Cerchiamo di dare loro la parte più vera, più forte, più sentita di noi stessi, ma anche il nostro desiderio di guardare avanti e superare i nostri stessi limiti. La dimensione in studio e quella live sono mondi differenti e vale la pena di esplorarli sino in fondo, anche eventualmente nelle difficoltà.
Anche voi siete tornati a suonare live dopo il fermo forzato della pandemia. Com’è stato ritrovare il vostro pubblico?
Siamo ripartiti questa primavera ed era dal 2019 che non ci esibivamo come band. Ci riteniamo fortunati a essere di nuovo in grado di farlo. Ognuna delle persone che sono venute ai nostri show è stata meravigliosa. Ognuna! Non credo di esagerare se dico che la gente che assiste ai concerti degli Xiu Xiu è il miglior pubblico che si possa immaginare.
Ben quattro date in Italia. Milano, Pisa, Bologna, Torino. Che ricordo avete dei vostri tour precedenti dalle nostre parti? C’è un aneddoto che ti ricordi?
Suonare in Italia è fantastico, perché la gente è sempre molto espansiva nei nostri confronti. Mi ricordo in particolare del nostro primo tour del 2004. Suonammo sul sagrato (con pavimento irregolare, infatti le tastiere rischiavano sempre di cadere) di una chiesa nota alla gente del posto come “Chiesa della morte”. C’erano teschi ovunque.