La tentazione di scrivere di “Garden Of Delete” in una lingua che prevedesse segni grafici ed emoticon era sinceramente fortissima. O di trollare candidamente dicendo che questo disco fa a tal punto schifo da essere un capolavoro. O forse è davvero così.
Oneohtrix Point Never non l'ho mai capito a fondo. O meglio: credo d'averlo capito come potrei capire come funziona Ableton. Senza leggermi il libretto delle istruzioni - sempre che esista - forse con qualche tutorial, andando per tentativi, lavorando di ri-composizione. Arrivando al mainframe per intuizione. Ricordo quando studiavo educazione artistica alle Medie, io disegnavo solo prospettive, solo strade in prospettiva. Partivo dal punto di fuga, da lì poi si svolgeva il tutto. Montagne o mare che fossero, alberi o case, marciapiedi o chissà che altro. Non c'era costruzione d'insieme e la complessità del framework era data da una cosa insignificante: un punto. A me parevano onestamente una figata tutte quelle linee rette, tutto quel pianificare geometricamente il foglio, salvo poi fare un po' di casotto e metterci cespugli o laghetti, che con la geometria dello spazio su un foglio A3 avevano ben poco a che fare. Ci vedevo (anzi: ci ho visto, post) una sorta di emotività-al-contrario che emergeva. Costruzioni e architetture (mentali) che nella mia testa erano libere da vincoli, ma che in realtà si riducevano a un punto in contatto con altri punti.
E con "Garden Of Delete" è proprio a quei disegni che il mio pensiero è andato. E anche qui c'ho visto una emotività fuori dal comune. E l’emotività-sbagliata che questo album trasuda è un qualcosa che va oltre ciò che generalmente - non capendoci un acca - intendiamo per emotività. Proprio come nei disegni che facevo. O come quando ascoltavo un sacco di post-rock (quello purtroppo comunemente inteso, quello del soft/loud, stracolmo di finzione). Quello del pilota automatico e brividi messi su binari paralleli e che sai benissimo dove vanno a parare. Di quello musica lì mi sono rotto. Il carico emozionale che avevo (e che mi dava) lo relego ad anni in cui facevo male il liceo e facevo finta di alienarmi. Ora di anni ne ho 27 e non devo più fare finta.
Non ho ancora detto nulla di questo album, perché in realtà davvero non so che dirne. Non so se sia un disco di canzoni, anche se credo di sì. Lopatin in una bella intervista a TheQuietus riferisce che una persona a lui cara a proposito di “Garden Of Delete” dice: ”Usually I need to picture something in my mind when I’m listening to your music – like a metaphor, a movie in my head to get through your ideas – but this time I can just listen as if they’re songs”. Insomma: ci sono le canzoni. E a dirlo è sua madre. A me non convince la mamma di Lopatin, a essere sincero.
Questo perché vivo “Garden Of Delete” come una specie di mondo spigolosissimo che trova costruzione completa e visionarietà nel racconto proprio a partire dal suo suonare monolitico. Cioè io ci vedo un blocco di cemento a secco, pieno di sbeccature e led color smeraldo che lo illuminano da lontano con fasci di luci oblique.
Senza che Maometto o chi per lui si senta offeso, mi pare una Ka’ba decuplicata, immobile, una scatola, un atomo dove dentro succede di tutto. Però, appunto: una unità indivisibile. Eppure la struttura e il tono delle canzoni continuamente spigolose dovrebbe lasciar pensare ad altro. E pure il loro suonare apparentemente slegate, senza un minimo di continuità sonora non solo tra loro ma addirittura all'interno di loro stesse. Eppure, pensandoci bene: è una cazzata. Ciò che le mie orecchie sentono non significa nulla. Ha significato quel che percepisco e che intuisco. E io ci vedo una narratività coesa e dirompente. L'ontologia del concetto del "giardino" - associata generalmente a semantiche-wubbose - unita a quello della "cancellazione", pare un ossimoro su tutta la linea. In realtà altro non è che il trait d’union più lineare possibile di questa scatola che gira solo su se stessa, egotica, chiusa.
Che costruzione c’è in “Garden Of Delete”? Banalmente: 11 pezzi legati da un impianto narrativo dove - a dire di Lopatin - ci sono le canzoni. Sì, esistono e sono struttura e in essa si perdono. Vivono anche in maniera autonoma, e nel contempo si riempiono le une nelle altre, offrendo svolazzi pop, droni hi-tech, suonini usciti da un Nokia 3310. Si legge in giro che sia il disco rockettaro di Opn, lui stesso racconta di link evidenti con gente tipo Nine Inch Nails (con i quali pure è andato in tour) e, se scartabellate bene oltre la prima pagina di Google offrendo come chiave di ricerca “Opn Garden Of Delete”, ebbene ci troverete tag quali ad esempio hypergrunge. Che, ad essere sincero, mi pare la cosa più a fuoco dell’intera storia, dell’intero racconto. Prima Lopatin rivisitava kosmische e splittava dischi con gente tipo Emeralds o Tim Hecker (giusto per dare una indicazione - evasiva al massimo - sulle sue prime fisse), salvo poi mettere la freccia e abbassarsi con “R Plus Seven” a indicare la strada al suono del presente. E con “Garden Of Delete”, all’opposto ma in linea di continuità straordinaria, fa un ulteriore salto avanti.
Così, passando dall’immaginario eighties-vaporwave, si va verso Seattle. Che, mi frusteranno i fan di quella penosa scena musicale, è in assoluto una delle cose più sopravvalutate ever. In breve: prima c'erano le rivistazioni kitsch della kosmische e di tutto il giro zucchero-pop anni 80 passato sotto il caramello e rallentato dell'800%. Ora invece si prendono le chitarre, Lopatin manda all'assalto la sua personalissima versione dei Pearl Jam passati ai filtri della Warp. Potenzialmente una delle cose più tamarre di sempre. Effettivamente: anche. Però in tutto questo costrutto (buono al massimo per una invettiva a caso di Richard Benson) c'è dietro una poesia che non credo si possa verosimilmente descrivere.
D’altronde sono passati due anni da "R Plus Seven". Si sa, le cose cambiano. E se Tumblr è ormai roba da precambriano, la realtà di “Garden Of Delete” è molto più urgente di quel che sembra. E racconta una storia - o meglio - la riassume e ne indica la visione. Ossia: 50 anni di musica messi in una scatoletta, compattati e fatti-presente. Mi chiedo davvero che senso abbia dirvi come suonano “I Bite Through It” oppure “Sticky Drama”. Perché un senso per me non ce l’hanno. Vivono ed esauriscono la loro forza propulsiva nel minutaggio che occupano. E dialogano sotterranemante a viso scoperto con le altre. Né più né meno che una sinfonia.
Capita così che questa cavolo di emotività-sbagliata me la cucio addosso quasi forzatamente quando introietto in me quella cosa che è il secondo 5 del minuto 3 di “Freaky Eyes”. E potrei citare diversi altri frammenti, schegge, istanti in cui - durante l'ascolto - vorrei solo guardare le anse di un fiume, essere su un ponte e buttarmici. Io, che nemmeno so nuotare. Quel senso di vuoto che boh, trascina tutto con sé. Ed è proprio da questa percezione di continuo smarrimento e ritrovarsi del sé che questo disco parla.
Tutto ciò che ho scritto mi rendo ben conto faccia fatica ad acquisire una spina dorsale, una lettura "omogenea". Addirittura credo suoni sconclusionato e per nulla inquadrabile. Nonostante ciò prendetelo per quello che è: qualche migliaio di battute di uno che di Lopatin ha intuito molto e capito nulla. "Garden Of Delete" nasce e muore in se stesso. E con la realtà, con l'adesso che racconta. Il senso trovatecelo voi. Se può aiutarvi, pensate ad Alexander Wang che si mette a disegnare camice in flanella per boscaioli-goth-canadesi. E' la cosa più update, stupida e so-2015 che riesco a dire ora che sono le 7am del 30 ottobre. Sì, anche nonsense, lo so. Quello però sta a voi trovarlo. Io intanto, quindici anni dopo, ancora disegno punti di fuga e splendide strade in prospettiva.
01/11/2015