Petra Hermanova

In Death's Eyes

2023 (Unguarded)
experimental, droney & liturgical-folk

Esaurita l’esperienza in territorio art-pop/trip-hop con i Fiordmoss (“Kingdom Come” il loro unico disco, targato 2017) e inaugurato il progetto Hydropsyche con la collaborazione del dj e produttore norvegese Jon Eirik Boska (che ha fruttato, fino a questo momento, il solo Ep “Scree”, apprezzabile ricettacolo di club music per il “post-Antropocene”, tra cangianti melodie poliritmiche e nostalgia hi-tech), la compositrice, cantante e performer ceca Petra Hermanova (da qualche anno di stanza a Berlino) ha di recente inaugurato la sua carriera solista con le nove tracce di “In Death’s Eyes”, uno dei lavori più interessanti di questo 2023.

In bilico tra il richiamo mondano della tradizione folk e la potenza evocativa della drone-music più mistica, nonché caratterizzato da testi in cui l’afflato lirico è spesso destabilizzato da inserti surrealisti, “In Death’s Eyes” (per organo a canne, voce solista, coro e autoharp) è il resoconto molto personale di un faccia a faccia con la morte, che necessariamente diventa sofferta meditazione sulla fragile sorte dell’umanità, sempre lacerata dal conflitto eternamente irrisolto tra il richiamo ineludibile della trascendenza e la volontà di restare comunque fedeli alla terra. Da questo punto di vista, la scoperta nel 2018 dell’autoharp, un cordofono tipico della musica appalachiana, ha rappresentato per la Hermanova un momento fondamentale nel tentativo di trasfigurare in musica il suddetto conflitto, grazie a un suono a suo modo caldo e avvolgente, perfetto per mantenere intatto quell’estatico rapimento che spinge oltre la dimensione isolante tipica del nostro tempo.

Dopo essersi fatta le ossa con due singoli di già lodevole fattura nel catturare un’irrequietezza logorante (“Lacrimosa” e “Liquid Of The Eye”, entrambi usciti nel 2020), l’artista originaria di Valašské Meziříčí (una tranquilla cittadina a trecento chilometri da Praga) si è lasciata ingolosire dalla possibilità di lavorare con Denny Wilke, acclamato organista e grande conoscitore dell’organo Ladegast della cattedrale di Merseburg, che in questi solchi ascoltiamo fin dai primissimi secondi di “Black Glass”, opening-track dal dolente incedere marziale, incentrata sul difficile rapporto tra la fiducia in se stessi e quelle situazioni estreme che spingono a ricercare nel silenzio innanzitutto una dimensione di autoconforto.

What is the weight of silence
When the mind can't carry the load
A drone of sorrow
A thought I am to hold
Words pour back down my throat
Like black glass
A mute song solidifies
As a throat cast

Wilke è ancora più convincente nella lunga “Two Deaths”: dopo una prima parte costruita sull’equilibrio tra silenzi inabissati, luccicanze vocali e dissertazioni in punta di piedi, a rimestare nel buio una tensione sotterranea, nerissima, ronzante, questa lunga composizione (siamo oltre i dieci minuti di durata) affida proprio all’organo il compito di puntare vette di cosmica magniloquenza, deragliando dissonante in una coda che va spegnendosi come una fiammella assediata dalle tenebre. Nel testo, di poetico splendore, la Hermanova focalizza in maniera potente la sua attenzione sul tema della morte, quella morte che ognuno di noi si porta dentro come una “regina gloriosa, alta e serena”, seppur nascosta “dietro uno schermo sottilissimo”.

One death I carried within
A glorious queen, tall and serene
Behind a gossamer screen
Before my eyes another one
A rope hangs from her mouth
Her skin is raw
The air is dry
They gaze at each other
Like into a looking glass
One moves to test the other
Like one does after a long night
One death, two deaths
And they open their arms
Some coins in my palms
As I hang fire

Altro lungo viaggio (oltre nove minuti) è quello di “Perforatum (Eyes At Half Mast)”, dove distorte radiazioni risuonano una dentro l’altra, una verso l’altra, imbastendo una scenografia ultraterrena, che deve probabilmente qualcosa anche al doom-metal più dilatato. Ci vogliono ben cinque minuti perché la voce emerga da queste profondità radianti e, quando ciò accade, ecco il ramificarsi tremulo di parole che provano a dire dell’oltraggio che la “luce accecante” arreca a degli “occhi a mezz’asta”.

Rub the sun
Eyes at half mast
This blinding light
Rub it hard
Blood comes fast
This ruby dye
Illuminate us
In both eyes
Guide us out

Ma in fatto di durata, e in quanto a capacità evocativa, nulla supera il capolavoro strumentale “Aurochs’ Lament”, che sfiora i quindici minuti, ergendosi come brano simbolo di questa intensa ricerca della Luce attraverso i meandri della Notte più buia: il suono fragile dell’autoharp riecheggia in mezzo a una tempesta di droni come un vecchissimo carillon fuori di sesto e abbandonato a se stesso, quasi simbolo ultimo di quel pascaliano terrore che si sperimenta dinanzi al “silenzio eterno” degli “spazi infiniti”, che della morte sono vestigia e prefigurazione.
Solenne e carica di pathos liturgico, “I Am The Lung” rivela invece come la lettura della Bibbia sia stata una delle influenze più importanti per la scrittura dei testi di “In Death’s Eyes” (nello specifico, Levitico 17, 11: “Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull'altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita").

I am the vines
I am the living branches
I am the bright garment of mercy
Wrapping around the body in pain
I am the blood
I am the sap of life
I calm the child at my ankles in tears of fire
I am the grass
I am the heather in the mountains
I am the tide of living water
Washing ashore a broken heart

Altrove, l’autoharp si prende il suo spazio e la musica si carica di visioni ancestrali (“Here The Harpies Make Their Nest”, citazione di un famoso verso del canto XIII dell’Inferno dantesco, quello dedicato ai suicidi: “Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno”), cullando, all’occorrenza, parole che sono enigmi, perché nate dalla lenta sedimentazione del sibilare del Mistero ("Marrow embers/ They remember the blood of our elders/ And their surrender to the pyre"), oppure lasciandosi attraversare da sacre inquietudini, come nell’emblematica “Prayer” (che invita a non cedere dinanzi all’orrore inspiegabile della morte, quasi facendo il verso al Dylan Thomas di “Do Not Go Gentle Into That Good Night”)… e, ancor di più, nella conclusiva e magnetica “The Earthly Body, in cui, dopo aver fatto esperienza del “corpo terreno” e della mente che vacilla, perché “entusiasta della vita”, viene lasciato campo libero al risuonare delle campane.

Parafrasando quanto si legge nelle note di presentazione del disco, “In Death’s Eyes” affronta il tema della morte con un fervore così raro da lasciare la sensazione che queste composizioni abbiano rappresentato per la Hermanova una questione di sopravvivenza. Una sensazione che si rinnova e si consolida ad ogni ascolto di questo potentissimo esordio.

14/11/2023

Tracklist

  1. Black Glass
  2. Two Deaths
  3. Perforatum (Eyes at Half Mast)
  4. Here the Harpies Make Their Nest
  5. Prayer
  6. Aurochs' Lament
  7. Marrow Embers
  8. I Am the Lung
  9. The Earthly Body

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