I don't understand why you like me so much
'Cause I don't like myself
I don't understand why you like me so much
Wish I was someone else
Nel momento in cui scrivo questa recensione, Post Malone è il ventesimo artista più ascoltato al mondo su Spotify. "Sunflower" (17 dischi di platino in patria, un record), il suo singolo più famoso, si avvia verso quota tre miliardi (!) di ascolti, "Circles" ha già superato i due. Vanta otto singoli certificati diamante in patria, un altro record: per avere un'idea del contesto,
Justin Bieber si ferma a quattro insieme a
Katy Perry,
Eminem a tre come
Lady Gaga e solo
Bruno Mars, a quota sei, potrebbe impensierirlo.
Per "Austin" la superstar si è allontanata ancora di più dalle radici
hip-hop e dalle nebbie della trap per un album di pop-rock chitarristico e intimista, che parla di una celebrità ancora impantanata nelle sue dipendenze da fumo e alcol. È un quinto album che costringe Post Malone a snellire gli arrangiamenti per proporsi con un piglio più cantautorale, che sacrifica la devastante potenza pop di molti dei suoi successi preferendo brani più brevi e non particolarmente avventurosi, senza ospiti.
"Don't Understand", in apertura, è una confessione di fragilità voce-tremante-e-chitarra appena decorata dagli archi; anche la più veloce e meno scheletrica "Chemical", forse il brano dove si percepisce meglio il suo talento per le hit, si accontenta di pochi strumenti per animare una filastrocca che entra subito in testa.
Anche se il
boom-bap di "Mourning" porterebbe a pensare a un pezzo bombastico, alla fine si risolve in un pop-rap emotivo e pensoso.
In altri casi ritornano i riverberi atmosferici, come in "Something Real", con un coro gospel a sospingere il sentimento nonostante l'ennesimo testo triviale ("I can play the pussy like Fur Elise"), e anche l'elettronica invadente, basta ascoltare la pomposità quasi
Imagine Dragons di "Novacandy" e "Enough Is Enough", ma sempre alternate a momenti più raccolti, come la lacrimevole "Socialite", il carillon notturno di "Hold My Breath" e la chitarra acustica di "Green Thumb", che rischia il patetico. In "Buyer Beware" ammicca persino a tastiere vintage e battimani e in "Overdrive" si mette persino a fischiettare, come fosse un cantante d'altri tempi.
Il tormento interiore di Post Malone, che la conclusiva "Laugh It Off" fa esplodere in un liberatorio climax rock, è sempre stato importante nei suoi album ma qua diventa protagonista assoluto. "Austin" è più personale e, non a caso, la voce domina le canzoni. Il limite sta nelle dubbie doti cantautorali del titolare, ancora invischiato in tante banalità nei testi o soffocato da alcuni arrangiamenti, ancorato a modelli ritriti per quanto apprezzati (ancora i
Nirvana dell'"Unplugged", nel 2023?), incapace di esaltare questa nuova volontà di raccontarsi in modo più personale con una musica più originale.
Nei diciassette brani totali, troppi, ci parla a lungo di sé, della persona dietro il personaggio, ma anche dando per buona la sincerità, questo non basta a fare di "Austin" un album granché interessante.
28/09/2023