Confermando un percorso di avvicinamento a una musica relativamente più “umana”, laddove i suoi primi lavori risultavano essere ancora poco propensi a rendere più digeribile la sua ricerca in fatto di avanguardia vocale, la sound artist e soprano losangelina Micaela Tobin, unica responsabile del progetto White Boy Scream, giunge con “Tent Music” a una forma di "avanguardia tascabile", nata quasi per caso, grazie alla collaborazione del multistrumentista, compositore cinematografico e artista multimediale Joshua Hill.
Frutto di registrazioni risalenti al giugno del 2021, catturate in una tenda (quella che Hill aveva piantato nel giardino dei suoi genitori, durante un viaggio nell'Arizona settentrionale, per far visita al padre malato di demenza) e nei due anni successivi rivisitate anche con il supporto del batterista Ray Bell, “Tent Music” conserva comunque ancora tracce di una sperimentazione più o meno spinta, come mostrano il connubio di rumorismo e vocalismo creativo di “I See”, cui fanno da contraltare il neoclassicismo cameristico di “I Never Knew” e l’ipnotica irradiazione di sospiri, sbuffi e incantesimi come quintessenza di gospel & jazz di “Beautiful Creature”.
Se l’“Overture” si affida a un crescendo sinfonico, che si risolve in un contemplativo pannello di etereo splendore, in “False Star” la voce della Tobin sembra provenire da distanze remotissime, mentre la musica si agita quasi fosse preda di una misteriosa energia, salvo poi trasformarsi in tifonica cacofonia... la voce orrendamente distorta e ormai diventata un mugolio fatto di spettri. La coda, per bisbigli e dissolvenze vertiginose, potrebbe essere stata scritta ai tempi di “Hustle Divine” (2015).
Se la scelta di registrare sotto una tenda può essere letta anche come la volontà di creare un microcosmo tutto interiore, in cui sentirsi protetti dall’orrore del quotidiano, allora la “Tent Music” è perfetta per sprofondare dentro i labirinti della psiche, sia che ciò accada con le tessiture free-folk di “Beware” (dolcemente scandita da corde e cigolii, un bordone di profondità ancestrali a tenere la rotta e l’ugola vacillante su melodie d’altri mondi), sia che ciò si produca per il tramite di una lunga e sofferta meditazione come quella di “Closer”, impreziosita dalle figure austere del violino e da rarefatti profumi d’Oriente, nonché, nella parte finale, da un meccanico cicaleccio. Quest’ultimo brano mostra il lato più operistico della musica della Tobin, qui intenta a modulare la sua voce esibendo sfumature ambigue, in cui si riconoscono ora tratti di una Diamanda Galás sotto barbiturici, ora invece di una Nico particolarmente incline a desertici miraggi.
Più ordinaria, ma comunque evocativa, “Fade Away” imbastisce una deliziosa ballata space-folk, mentre, in coda, “Fire In My Hands” trasfigura l’austerità del kammerspiel in epica doom.
18/12/2023