In preda all’abbagliante fascino dell’indie-pop è stato facile trovare un posto negli ascolti per le graziose gesta folk-pop degli australiani Angus & Julia Stone, ma il tempo è stato giudice tiranno e rivelatore, smorzando l'interesse del pubblico e della critica. Le pur eleganti vesti di “Down The Way” e il successivo omonimo album, in verità, già mettevano in luce le carenze compositive dei fratellini di Newport, troppo inclini a un romanticismo figlio di falsate reminescenze anni 70, di residui di glorie American-style come i Fleetwood Mac e delle contemporanee delicatezze degli Swell Seasons, quest’ultime decisamente più riuscite e memorabili.
La musica di Angus e Julia Stone è affabile, piacevole e garbata quanto basta per guadagnarsi un ascolto giudizioso, ma il nuovo album, “Cape Forestier”, per quanto tenti di risollevare le sorti dopo il disastroso “Life Is Strange”, non va oltre un fugace attimo di relax.
Non c’è canzone che lasci veramente il segno, nel nuovo album degli australiani. Il country zuccherino di “Country Sign”, il riverbero dei dobro in “My Little Anchor” e le fluttuanti sonorità country-blues di “Down To The Sea” sono invitanti e non prive di classe e grazia, ma non basta un graffio chitarristico per rendere vivide canzoni decisamente esangui.
Il duo prova a catturare la passata magia, ma brani come la title track e “Sitting In Seoul” sono tiepide e superflue, mentre il recupero di una vecchia canzone scritta per il matrimonio di un amico (“The Wedding Song”) e la scialba versione di “I Want You” di Bob Dylan non lasciano ulteriore dubbi sull’inconsistenza di “Cape Forestier”.
Con un curriculum ricco di premi e nomination in terra australiana, gli Angus & Julia Stone sembravano pronti a conquistare il mercato americano e quello europeo, e "Cape Forestier" è l'ennesimo tentativo di catturare l'attimo fuggente del successo, ma per quanto piacevole, questa ultima impresa discografica impallidisce perfino al confronto del peggior disco di Taylor Swift.
27/07/2024