Un quarto di secolo. Quest’anno scocca esattamente il venticinquesimo compleanno per Bruce Soord e la sua creatura Pineapple Thief. Un lasso di tempo che ha visto la formazione inglese pubblicare più di una ventina di album, tra studio, live e compilation, nonché registrare naturali rimaneggiamenti e variazioni nella line-up.
Il buon Bruce, però, è rimasto sempre fieramente al timone della nave, un saldo capitano, orgoglioso del suo percorso, che ha vissuto i fisiologici alti e bassi, come logico in un periodo artistico così ampio, ma che non ha mai perso la bussola direzionata verso il proprio credo artistico; d’altra parte, parliamo di veri cattedratici del filone progressive rock moderno.
All’alba del 2024, ecco che i nostri ladri di ananas trovano il modo di tornare a suonare il campanello dei propri fan con un nuovo album dal titolo “It Leads To This”, a distanza di due anni dal precedente “Give It Back”.
Il canovaccio sul quale si sviluppa il lavoro di Soord e soci è praticamente identico a quello già osservato in occasione delle loro più recenti testimonianze e per certi versi questa non è da considerare una notizia troppo favorevole. Anche in questo caso, sembra che la band svolga il proprio ufficio senza dare la sensazione di voler osare qualcosa di più rispetto agli schemi ben consolidati. Intendiamoci, trattasi sempre di un prodotto di qualità superiore alla media, che trova ristoro sopraffino nelle possenti trame chitarristiche del leader, nelle raffinate tessiture elettroniche di Steve Kitch e soprattutto nel sontuoso lavoro alla batteria del funambolico Gavin Harrison, sul quale ogni ulteriore disamina risulterebbe pleonastica, visto che stiamo scomodando, senza ombra di dubbio, uno dei migliori esponenti del settore, in grado di alzare il livello anche del prodotto più noioso in circolazione.
Ciò che lascia un po' interdetti è vedere queste inusitate potenzialità limitarsi a svolgere il classico compitino, che lascia un po' l’amaro in bocca per ciò che poteva essere e non è stato.
Il rock progressivo moderno vive di nuove influenze, come accadde nell’epoca d’oro degli anni 70. Oggigiorno esso deve essere alimentato da portate inedite, che cercano, magari anche rischiando il fallimento, diverse strade stilistiche, inesplorate contaminazioni. I frequenti e congeniti paragoni con i Porcupine Tree o con il profilo solista di Steven Wilson purtroppo non reggono più e nemmeno la presenza del vate Gavin Harrison, che da anni fa la spola tra i due progetti, non garantisce il pieno raggiungimento dell'obiettivo. Mentre i Porcupine Tree (soprattutto Wilson) viaggiano in lungo e in largo tastando nuovi orizzonti, talvolta sbattendoci anche un pochino la testa, i Pineapple Thief restano ancorati nel porto sicuro di un prog-rock che probabilmente avrebbe fatto faville tra i tardi 80 e la metà dei 90, quelli del cosiddetto neo-progressive, che potevano ambire a sfociare, al massimo, verso un forbito art-pop o un art-rock dal sapore un tantino scolastico.
Le melliflue e notturne atmosfere di “Put It Right”, come gli episodi più incisivi quali “Rubicon”, il singolo “The Frost” ed “Every Trace Of Us” comunicano bene le proprie eleganti essenze, ma senza offrire quel quid necessario ad aizzare le antenne. La title track e “All That’s Left” azzardano a sbloccare un po' quest’andazzo regolare, nel secondo dei due brani citati con qualche apprezzabile vezzo eighties. I mutevoli impasti di “Now It’s Yours” e di “To Forget”, camaleontiche nelle loro introduzioni poi spalancate su brezze più veementi, chiudono il lavoro con migliore costrutto, confermando il lignaggio dei singoli esponenti.
“It Leads To This” non aggiunge né sottrae alcunché al background dei Pineapple Thief. I fan della prima ora potranno inserire un ulteriore tassello al muro edificato da Bruce Soord, praticamente identico a quelli fissati in epoca recente. Il rischio è che alla lunga anche chi adora queste tendenze, sempre e troppo costanti, possa allentare quel nodo che una volta era in grado di tenerli in modo rassicurante.
24/02/2024