Il termine stocastico nasce in ambito matematico e si riferisce a fenomeni che implicano caso e probabilità. In musica, diventa arte dell'imprevedibile: un regno in cui i suoni prendono forma attraverso calcoli computazionali. Questo metodo, evocato per la prima volta dal compositore e architetto Iannis Xenakis, ha oggi le sue declinazioni più radicali in SuperCollider o Max/MSP, linguaggi di programmazione musicale che da decenni delineano la metodologia dei più audaci tra i demiurghi elettronici (Autechre in primis). L'intento è in apparenza semplice: forgiare entità sonore che decidono autonomamente, con l'artista che diventa architetto del codice e guardiano del perimetro in cui tutto accade.
Nel caso di "Stochastic Drift", l'incantesimo del suono aleatorio si fa riflesso delle incertezze umane e delle ombre del post-pandemia. Barker medita sulla propria vulnerabilità e su un'esistenza sospesa tra disoccupazione e riscoperta di sé. Lo fa attraverso la sua drumless-techno, già emersa come lingua madre nel luminoso e avvolgente "Utility" (2019). Oggi, Sam Barker plasma strumenti che si auto-generano: si trasforma in artigiano digitale, druido di circuiti, evocando scenari notturni permeati da un'estetica future-trance, come se Lorenzo Senni fosse stato assimilato da un'intelligenza sintetica ("Reframing"). Abbandonata la cattedrale Ostgut Ton, label ufficiale del Berghain, per abbracciare Smalltown Supersound, etichetta che ha ospitato Jaga Jazzist, Kelly Lee Owens e Lindstrøm, il mistico del caos cerebrale si spoglia dell'armatura da clubber per costruire un orizzonte caleidoscopico, un prisma ipnotico dove i sintetizzatori balbettano ritmi spezzati su tessiture granulose e bassi affilati come laser ("Force Of Habit").
Attraverso un'erudita manipolazione degli strumenti digitali, "Stochastic Drift" indaga al tempo stesso la matematica e lo smarrimento dell'io, tracciando traiettorie mentali fluide e sognanti, dove le melodie si disfano in continue rigenerazioni ("Cosmic Microwave"). È come se un Mark Fell androide si riscoprisse organico, lasciando affiorare presenze future-jazz (la title track, un trip lisergico di sintesi sottocutanee e variazioni liquide) e carezze ambient che fluttuano tra pensieri sussurrati ("Fluid Mechanics") come espressione della propria umanità ritrovata.
Ci troviamo in terre ancora poco cartografate. Non che la simbiosi tra uomo e macchina sia una novità, ma qui la narrazione si sposta: non è l'algoritmo freddo e impersonale a dominare, bensì un'entità fatta di esitazioni, paure, slanci, che potrebbe non condividere il nostro genoma ma ha una propria anima. È su questo crinale che prende forma il suo pionierismo, proiettato verso dimensioni ignote e possibili futuri. Quel che è certo è che Barker ha ancora costellazioni da esplorare. E noi, ad occhi spalancati, siamo qui per esperirle.
24/04/2025