Giace in quel mondo al confine tra sogno e incubo, il nuovo album di Kathryn Mohr. Uno spazio dove l’antitesi tra uomo e natura è ancor più stridente, uno scenario quasi cinematografico tratteggiato perennemente in bilico tra sonorità folk ancestrali e drone-music ambigua come il futuro.
Da sempre affascinata dall’antitesi tra natura e uomo, Kathryn Mohr ha scelto una fabbrica di pesce abbandonata situata in un villaggio islandese per registrare in solitaria il suo nuovo album, restando così fedele all'idea di legare il progetto artistico a un luogo e a quegli oggetti che raccontano la presenza, a volte invadente, dell’essere umano. Gli accordi di chitarra acustica sono scheletrici ed esangui, più prossimi a una colonna sonora ambient-horror che a una celebrazione rituale della natura. Non sorprende, dunque, che le storie raccontate dalla Mohr si concentrino sulla fugacità della vita, sulla fallacità della memoria, su raccapriccianti vicende d’ingiustizia e sanità mentale.
E' la naturale e necessaria ferocia della natura, il primo elemento di “Waiting Room”. Le fin troppo scarne note di “Diver” sono simili allo scricchiolio di foglie consunte o al furore sordo di un fiume in piena, distorsioni sonore e melodiche che in “Petrified” suonano ancor più cupe e oscure. La disgregazione sonora è percepibile e disturbante come il fetore dei resti di un animale morto da giorni, qualcuno avrà l’ardire di chiamarlo blues, ma questo non è il grido di un’umanità sofferente bensì quello ancor più spaventoso della natura che essa ha calpestato.
Tormento ed estasi sono un unicum espressivo per Kathryn Mohr, ciò nonostante “Waiting Room” non è un album dolente e musicalmente monocromatico: affiorano spesso pulsioni alt-rock (“Wheel”), dissonanze noise (“Elevator”) e ballate folk-rock melodicamente impellenti e struggenti come un demo di una band grunge (“Take It”).
E’ un album a combustione lenta, il nuovo lavoro dell’artista americana, memore di quel saggio di destrutturazione rock che già abilmente gli Hugo Largo tramutarono in arte - si ascolti la splendida e notturna “Horizonless” - o di quegli abissi sonori che negli anni 80 corrompevano l’anima oscura della new wave (la criptica e originale divagazione a base di field recording di “Cornered”).
Intimo, profondo, velatamente dissoluto e ingannevole, “Waiting Room” prende per mano, anzi per le orecchie, l’ascoltatore promettendo l’ennesimo viaggio nel goth-folk. Il percorso è irto e spinoso, ma anche quando la pace sembra prendere il sopravvento (la title track), follia e bellezza viaggiano in sincrono: la solitudine e la contemplazione diventano l’unica via di fuga dall’orrore e dal disfacimento, ma è dal dubbio che nascono nuove certezze.
01/03/2025