The six months after the Constantines stopped playing was one of the most fucked up periods in my life. I realized pretty quickly that I didn’t really know how to play music outside of The Constantines. We had learned to be musicians together. There were no real goodbyes, but there was a complicated mourning process, figuring out that there were other things to devote oneself to. Trying to write a resume was a nightmare. Life went on.
Sono queste le parole che Bryan Webb usa per parlare di una band che è stata la sua vita, perlomeno per dieci lunghi anni e quattro dischi, e per annunciare che quella band salirà ancora su qualche palco, quest'anno, nel 2014.
Passo indietro: Guelph, Ontario, Canada. Fine anni Novanta. Dopo alcuni trascorsi emocore, Steve Lambke, Bryan Webb, Doug MacGregor e Dallas Wehrle formano i Costantines. In breve si spostano a London e approdano infine a Toronto, pulsante centro artistico dell’Ontario. Qui nel 2001 decidono di realizzare il loro primo disco, The Constantines, con gli amici di Guelph Lisa Moran e Tyler Clarke Burke, fondatori della locale etichetta indipendente Three Gut Records. Ispirato al post-hardcore dei Fugazi, con un "orecchio" di riguardo al math-rock, The Constantines diventa subito un successo per la neonata etichetta. Trame armonico-ritmiche ben intarsiate dalle due chitarre su ritmiche spezzate, suono e produzione asciutti. Un esordio cocente e intelligente, che fa parlare di “art-punk”.
Il primo brano, “Arizona”, sembra uscito da casa Dischord (non solo Fugazi, ma anche Lungfish e Dag Nasty). La voce roca di Bryan Webb – come tipologia più vicino a Paul Westerberg che a Ian MacKaye – diventerà il marchio di fabbrica della band sia sui brani più "squadrati" e punk, sia su quelli più "quadrati" e indie-rock (“No Ecstasy”). “Long Distance Four” ricorda i Van Pelt quanto “Seven A.M.” i Rites of Spring, mentre “Justice” e “Hyachint Blues” hanno già quell’anima black che si espliciterà maggiormente nel secondo disco, e che condivideranno coi futuri compagni di etichetta Afghan Whigs. Nonostante la matrice post-hardcore generale, altri brani si discostano dalla foga e dalla ruvidezza post-punk, come l’intimista ballad “St. You”. Sono le prove generali di quello che sarà il loro capolavoro, Shine A Light (2003, Three Gut e Sub Pop Records).
Tolti i sassolini dalle scarpe, compresi i debiti stilistici con casa Dischord, i Costantines si preparano a realizzare il primo album personale con uno stile contraddistinto e netto nella sua ecletticità. Prima però, nei due anni che li separano dall’uscita di Shine A Light, pubblicano un paio di Ep che testimoniano il work-in-progress in atto: nel 2002 The Modern Sinner Nervous Man per Suicide Squeeze Records e nel 2003, a un mese dalla pubblicazione del nuovo disco, Nighttime Anytime con l’etichetta statunitense Sub Pop.
Se “National Hum” è un incipit ancora sulla scorta del post-hardcore dell’esordio, la produzione spicca già per ricchezza, stratificazione e spazialità del suono. Il basso in levare e le figure sfrangiate della batteria avviano il brano che dà il titolo al disco, Shine A Light: “Don’t talk to me about simple things/ There is no such thing/ All a man can build is his vision/ and I love my man for trying”. I brani alternano in maniera più armoniosa i momenti di pieno e quelli di vuoto, con un arrangiamento puntuale delle chitarre che non si sovrappongono più come in The Constantines, ma lavorano reciprocamente sulla verticalità e meno sull’orizzontalità di fraseggi fitti. Sembra che al secondo disco i Constantines abbiano compiuto quel salto stilistico che per i Fugazi fu “Red Medicine” (1995, Dischord), facendo le dovute differenze anche relative alle direzioni scelte. L’inserimento di arrangiamenti di fiati in “Insectivora” e “Goodbye Baby and Amen” apre infatti ad altri generi, come il jazz e il soul.
La perla del disco è indubbiamente “Young Lions”, brano indie-rock che diventa l’inno del gruppo. “Loosen your collar/ Shake off the wires/ Run like a river/ Glow like a beacon fire”. La strofa ritmicamente post-punk, ma con il suono di basso corposo e il contrappunto minimale delle chitarre, porta in maniera inarrestabile all’apertura del ritornello. Non è l’unico episodio indie-rock del disco, la distanza dal post-hardcore la prendono anche “On to You” e “Poison”, salvo poi "tornare ai Fugazi" con “Scroundel Babes”, brano che sembra suonato dai Q and Not U (non casualmente un’altra band di casa Dischord). “Tank Commander (Hang Up in a Warehouse Town)” aumenta la velocità con il bordo del rullante suonato con insistenza, il suono del sintetizzatore che apre alla psichedelia, il crunch della chitarra e la voce invocante: “Howling at the moon/ Night after night”. Il finale è affidato al folk-rock di “Sub-Domestic”, al suo ritornello cantato in coro e alla chitarra bluegrass.
Accolto splendidamente in patria (nominato ai Juno Award come "Best Alternative Album") e negli Stati Uniti (entusiasta anche la recensione di Pitchfork), Shine A Light fotografa perfettamente la maturità dei Constantines, una band in grado di introiettare molti generi (post-hardcore, rock, folk, jazz, soul) e restituirli in brani fondamentalmente indie-rock, cogliendone l’essenza proprio nella multi-stilisticità che lo caratterizza come genere-non-genere.
Il futuro, però, sarà tutt’altro che facile.
Con Tournament Of Hearts (2005, Sub Pop Records) la band canadese tenta di semplificare il prodotto: la sospensione ritmica e gli inneschi di chitarra di “Draw Us Lines” sono il perfetto passaggio di testimone dall'eterogeneità compositiva e fuorviante dei primi album al formato-canzone più convenzionale. Tournament Of Hearts è più asciutto dei suoi predecessori e punta tutto su un'immediatezza rock convenzionale e al passo coi tempi. Gli accenti di chitarra fanno da contraltare a una sezione ritmica più quadrata e per la prima volta al servizio completo della voce di Bryan Webb, protagonista in termini di presenza e di dinamica.
“Hotline Operator” e “Love In Fear” sembrano ripercorrere i passi degli ultimi Afghan Whigs, senza però riuscire a esplodere in ritornelli memorabili à-la Dulli, nonostante la forte carica emotiva del cantante. Con il downtempo di “Lizaveta” si abbandona l'acceleratore a favore di una pesantezza desertica saturizzata da una sezione fiati che accompagna drammaticamente il verso finale "We were born to live". Tre accordi e un incedere tradizionale per la più orecchiabile “Soon Enough”, in cui la voce di Webb si muove liberamente tradendo le sue capacità espressive cantautoriali, misurate e allo stesso tempo profondamente passionali. Suona invece stanca e sopra le righe la rockeggiante “Working Full-Time”, che prova a riproporre l'abrasività mantrica dei momenti più riusciti di Shine A Light senza colpire nel segno.
Tournament Of Hearts segna il momento di passaggio - e di parziale smarrimento - dalla carica indie-rock destrutturata a un songwriting più classico, ispirato tanto alle leggende del rock made in Usa degli ultimi 30 anni quanto alle nuove leve canadesi, che con maestria e sobrietà spesso superiore a certi corrispettivi indie europei o statunitensi riescono a brillare di luce propria. L'ultima parte del disco è ancora più confusa. In “Thieves” e “Windy Road” la voce è quella del chitarrista Steve Lambke, più esile e timbricamente meno importante: la prima incuriosisce per i sottili e nervosi contrappunti chitarristici che ricordano i dEUS, spezzati da fiati che sembrano arrivare direttamente dai Broken Social Scene di “You Forgot it in People”; la seconda è un breve e innocuo episodio completamente acustico e sussurrato, fortunatamente preceduto dalla canzone più efficace dell'album, “You Are A Conductor”. "There a little evil in everything", canta un ispirato Bryan Webb, riagguantando per altri quattro minuti la solennità necessaria a fare di questo terzo lavoro un interessante - anche se solo in parte riuscito - esame di maturità, il tentativo di una band di risultare attuale e contemporanea in un decennio di profonda trasformazione musicale.
Ci vorranno tre anni e un cambio di etichetta per raccogliere i germi di Tournament Of Hearts: con Kensington Heights (2008, Arts & Crafts) i Constantines tornano con le idee più chiare e un sound più fresco, rimediando ai parziali fallimenti precedenti senza mutare la formula. Si parte, infatti, con l'irruenza chitarristica - condita dal solito suono di tastiera al limite del pacchiano - di “Hard Feelings”, caotico divertissement che apre le danze di un lavoro che estremizza il concetto di piano/forte. “Million Star Hotel” ne è l'esempio perfetto: chitarre sospese e assordanti nella migliore tradizione stoner per un ritornello impattante che lascia poi spazio alla dilatazione di una strofa in cui il leggero riverbero dei colpi di rullante scandisce un tempo rallentato sul quale può riemergere la voce sporca di Webb. Le poche note di basso distorto e i feedback controllati portano “Trans Canada” a un'apertura finale dalle urla liberatorie che questa volta non hanno nulla da invidiare al pathos di Greg Dulli.
Senza modificare il giro armonico i canadesi tengono alto il ritmo con il continuo tappeto strumentale di “Shower of Stones” sul quale si staglia la voce declamata del del secondo chitarrista. Con la nostalgica “Our Age” e le sue poche note ostinate di elettrica e tastiera torna invece a farla da padrone la melodia, mentre “Time Can Be Overcome” è la perfetta ballata dispari dal minutaggio abbondante e dai lunghi silenzi.
È chiaro: niente di nuovo all'orizzonte. I Constantines non riscrivono la storia del rock, ma anzi pescano a mani basse dal passato più classico, come dei Wilco dei Grandi Laghi. L'eco Dischord dell'esordio e la multi-stilisticità – intesa come apporto di novità - di Shine A Light sembrano lontani anni luce. I Constantines di “Time Can Be Overcome”, come dell'altrettanto intensa “I Will Not Sing A Hateful Song”, sono degli ottimi artigiani del rock cantautoriale; un rock che comunque conserva ancora elementi di rottura qua e là, che non indugia nel far leva sui propri eccessi (un chitarrismo per niente timido ed effettato, le sfumature psichedeliche dei suoni di tastiera di Will Kidman e, non ultima, la voce grezza, profonda, passionale e vera di Bryan Webb) e che per questo ha ancora senso definire “indie”.
Ritornando a Kensington Heights, si respira un'aria college-rock in “Brother Run Them Down”, vuoi per il testo (“you are not your generation”), vuoi per un sound più catchy a metà strada tra i Buffalo Tom e i vicini di casa Weakerthans, sempre affrontato con una drammaticità figlia di Bruce Springsteen. Il quintetto chiude il cerchio con il solenne crescendo finale di “Do What You Can Do”: “Puoi fare quello che vuoi con quello che hai”: un lascito che potrebbe suonare come una giustificazione, ma forse, più semplicemente, racchiude la filosofia di una piccola grande band canadese con un buona dose di talento compositivo, classe da vendere e nessuna velleità.
È curioso che a porre fine alla carriera dei Constantines sia in realtà un Ep che ripropone in versione semi-acustica una manciata delle loro più belle canzoni, una sorta di unplugged in studio da regalare ai fan. Too Slow For Love (2009, Arts & Crafts) è un piccolo capolavoro imperfetto che mostra, finalmente, il valore aggiunto di una band: quello di saper scrivere canzoni in grado di stare in piedi da sole – perfino con maggiore dignità – andando a togliere quegli strati di distorsioni e battiti, denudandole completamente. “Our Age” emoziona più in questa versione voce/chitarra lo-fi e “Young Lions”, il loro cavallo di battaglia, viene fuori per quello che è veramente: una canzone pop perfetta, di quelle che scrivi una volta sola nella vita.
Nel 2009 Will Kidman lascia la band e tutto sembra fermarsi, senza scioglimento ufficiale. Steve Lambke dà vita al progetto Baby Eagle, collaborando anche con The Weather Station, e Bryan Webb prosegue la propria carriera solista con modesti album cantautoriali. Niente di così memorabile, niente di paragonabile all'urgenza di quei primi Constantines o all'autorevolezza dell'ultimo periodo della band. È così che, dopo qualche anno, arriviamo alla reunion di oggi:
There is too much love and too much life in this music for it to only exist in the past. We’re happy to announce that The Constantines – Will Kidman, Steve Lambke, Doug MacGregor, Bry Webb and Dallas Wehrle – will be playing some shows this summer, leading up to the 11th Anniversary Reissue of Shine a Light.
Maria Teresa Soldani: The Constantines, Shine A Light
Enrico Viarengo: Tournament Of Hearts, Kensington Heights
The Constantines(2001, Three Gut) | 6,5 | |
Shine A Light(2003, Sub Pop) | 8 | |
Torunament Of Hearts(2005, Sub Pop) | 8 | |
Kensington Heights(2008, Blue Fog/Aets & Crafts) | 7 | |
Too Slow For Love(2009, Arts & Crafts) | 7,5 |
Nighttime/Anytime (It's Alright) | |
Young Lions | |
Working Full Time | |
Hard Feelings |
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