dEUS

dEUS

Guitar-rock in salsa belga

In due decenni di carriera, i belgi dEUS, hanno forgiato un sound eccentrico e spiazzante, che pesca un po' ovunque, dall'art-rock di Captain Beefheart e Frank Zappa all'energia di Pixies e Sonic Youth, fino al guitar pop d'autore dei loro lavori più recenti

di Davide Bassi, Ciro Frattini

I dEUS (Tom Barman, Stef Kamil Carlens, Klaas Janzoons, Jules De Borgher la formazione iniziale) si formano ad Antwerp, in Belgio, nel 1991 ma il loro debutto giunge soltanto nel 1994 con un disco, Worst Case Scenario, che consente subito alla band di ottenere successo internazionale, rompendo così un monopolio, quello anglosassone, che raramente viene scalfito. Il suono dei dEUS è difficilmente definibile e pesca in egual modo dal passato (Captain Beefheart, Frank Zappa, Velvet Underground, jazz) e dal presente (Nirvana, Pixies, Sonic Youth), ma basta ascoltare "Suds & Soda", il pezzo che apre il disco con un ipnotico violino e un travolgente ritornello, per rendersi conto di come, in realtà, la band possieda un sound spiazzante e assolutamente personale. Worst Case Scenario è un disco eclettico, che mischia brevi intermezzi divertenti ("Shake Your Hip") a follie blues ("Great American Nude"), struggenti ballate ("Jigsaw You") a brani dalla forte impronta jazz ("W.C.S."), senza discontinuità e senza cadute.

La successiva uscita discografica, My Sister Is My Clock (1995), è un curioso Ep registrato in pochi giorni e composto da una sola traccia di 25 minuti, formata a sua volta da 13 brevi tracce legate tra di loro dal racconto di Sergej, un ucraino che narra una storia dell'orrore. Questa sorta di mini concept-album è ben più di un bizzarro esperimento: le canzoni che ne fanno parte, sebbene quasi sempre soltanto abbozzate, sono infatti una miniera di idee giocose e divertenti, in totale libertà e senza la limitazione della forma canzone, salvo alcune eccezioni come la compiuta "Void", che paradossalmente stona all'interno di un disco così sui generis.

In A Bar, Under The Sea, secondo Lp, esce nel 1996. Quindici tracce sono forse troppe, e non si ripete il miracolo compiuto con il disco precedente: a livello complessivo, l'album è senz'altro meno convincente, ma ciò non toglie che alcune canzoni siano assoluti capolavori, a cominciare dalla funkeggiante "Fell Off The Floor, Man", folgorante apertura. "Little Arithmetics" è una ballata assolutamente perfetta. E non mancano episodi intriganti e coraggiosi ("A Shocking Lack Thereol", la straordinaria "For The Roses", "Nine Threads"). "Supermarketsong" e "Memory Of A Festival" sono chiaramente due omaggi divertiti, il primo all'easy-listening e il secondo al punk più giocoso e innocuo.

Successivamente, Stef Kamil Carlens abbandona la band per formarne una tutta sua, i Moondog Jr. (che muteranno poi il nome in Zita Swoon): i dEUS orfani di Carlens realizzano nel 1999 The Ideal Crash, svoltando nettamente rispetto ai precedenti lavori.
Mettiamolo subito in chiaro: questo terzo disco è senz'altro meno geniale e bizzarro dei precedenti, lontano dallo stile dEUS e privo di quella commistione di generi che era diventata la loro cifra stilistica. Alcune sonorità, inoltre, paiono ammiccare troppo alla moda del periodo, tanto da sembrare, ascoltandole oggi, precocemente invecchiate.
Eppure The Ideal Crash è un altro capolavoro. Compatto, perfetto e con alcune delle melodie più belle composte dalla band. Orecchiabile, maggiormente convenzionale e rispettoso della forma canzone: in una parola, pop. Pop sublime e orgoglioso di esserlo, così come lo furono i Prefab Sprout e il Lou Reed di "Transformer", per esempio. Difficile non affezionarsi a canzoni come "Sister Dew" o "The Magic Hour" e allo stesso tempo impossibile non lasciarsi prendere dal crescendo di "Instant Street" o dalla rumorosa "Put The Freaks Up Front". Le dieci canzoni che compongono il disco hanno in comune una venatura elettronica e, in alcuni pezzi, quasi progressive: appianate le asperità e priviliegiate le melodie, i dEUS si riconfermano una delle più grandi e sottovalutate band degli anni Novanta.

Negli ultimi cinque anni l'unica uscita discografica dei dEUS resta una raccolta di singoli, No More Loud Music: The Singles, che contiene anche l'inedita "Nothing Really Ends".

Dei dEUS, nel 2005, restano soltanto il leader Tom Barman e il violinista Klas Janzoons. Nei sei anni trascorsi dall'ultimo disco, Barman non è certo stato con le mani in mano: ha partecipato al progetto elettronico Magnus realizzando un disco, "The Body Gave You Everything", e ha addirittura diretto un film, "Any Way The Wind Blows".
Ma è nel 2005, appunto, dopo una manciata di date live per "testare" i nuovi pezzi, che vede la luce il quarto, attesissimo, album dei dEUS, Pocket Revolution. Disco quasi perfetto, raffinato, con alcuni pezzi straordinari (la ballata iniziale "Bad Timing" e "Include me out", annoverabili fra i migliori del repertorio della band), ma che lascia un po' freddi perché latitano le zampate geniali e la lucida follia dei dischi precedenti. Ancor più che nel disco precedente, i dEUS rinunciano alle stramberie dei loro primi capolavori per portare la loro musica sui binari più rassicuranti del pop e nonostante qualche brano deboluccio nella parte centrale, lo fanno con classe e maestria, facendo uscire qua e là il loro inconfondibile stile. Forse prescindibile, forse il meno riuscito della loro carriera, forse un disco che suona come fosse di qualche anno prima, ma nonostante ciò un piccolo gioiello che ricorda come i dEUS siano ancora fra noi.

Tre anni dopo, Vantage Point (2008) gioca soprattutto sull'impatto: il riff potente e carico, trascinatore, di "Favourite Game"; il passo da funky elettronico del singolo "The Architect"; il dance-rock da arena, con tanto di clap hand e rap di "Oh Your God". Vuole essere semplice, Barman, ma a modo suo. Scompaiono i fiati, e gli arrangiamenti si fanno più da rock-band, ma non per questo smettono di essere curati (si pensi ai violini e le chitarre elettriche della ballata "Eternal Woman"). I brani, ammiccanti, sensuali, a tratti cupi, spesso si stemperano in giri melodici, a volte consueti ("Is a Robot"), a volte alieni ("When She Comes Down", che ricorda i Go-Betweens): comunque ricercati.
Soprattutto, Barman riesce a immergere le idee in canzoni che funzionano. Partiamo dal lentone, la fatata "Eternal Woman", acustiche e violini, note di piano e voce femminile ad accompagnare nell'inciso. "Popular Culture" è un crescendo corale dall'afflato soul, capace di aprire i cuori alla gioia; "Slow", che pure spreca l'apporto di una delle migliori voci di oggi (Karin Drejier dei Knife), è la sua versione rock. La tiratissima "Favourite Game" è un perfetto brano da ascoltare al massimo volume; "Smokers Reflect", delicata ballata per piano memore degli Yo La Tengo, è la testimonianza di un eclettismo ad alti livelli.

Eliminate le divagazioni meno legate all'ambito alt-rock, con Keep You Close (2011) il quartetto (che della formazione iniziale presenta ancora il solo Barman, compositore di liriche e testi) sembra voler porre un freno all'imprevedibile esplosione di colori che caratterizzava la sua musica per avvicinarsi a una dimensione più definitivamente rock. Non a caso ospite della band in due impercettibili camei è quel Greg Dulli che con i suoi Afghan Whigs ha seguito un percorso non troppo lontano da quello della band belga.
Emblema dei rinnovati dEUS degli anni Dieci è la title track che apre il disco. Un'orchestrazione cinematica accompagna la soffice voce di Barman, così lontano e allo stesso così vicino a quello "allucinato" di metà anni Novanta. Un'oscurità ariosa invade "The Final Blast", prima di esplodere di rabbia in "Dark Sets In", nella quale ci ritroviamo il buon Dulli alle spalle. "Twice" unisce beat sintetici all'ormai consolidato amore per archi e pianoforte, ma ecco "Ghost", con il suo malinconico rock da classifica a cogliere impreparati, annunciando il singolo "Constant Now", pop-rock dal gusto eighties mal digerito.
Sembra inevitabile il crollo, invece l'incalzante notturno recitato di "The End Of Romance" accoglie Tom Waits e Nick Cave nell'intimismo di Barman. Le tentazioni electro appena sfiorate in "Second Nature" sembrano rigurgitare lo spiazzante dance-rock di "The Architect". Ma è la traccia di chiusura, "Easy", a valere il prezzo del disco: synth soffusi, leggere sferragliate in lontananza e un delicato piano si mescolano in un ritratto dalla tinte espressioniste.
Un album che consegna una band ormai a proprio agio nel comporre sontuosi e raffinati affreschi alt-rock, ma che ha ormai perso la componente schizoide degli anni giovanili.

Trovata finalmente la stabilità della line-up, poche settimane dopo la pubblicazione di Keep You Close i dEUS entrano in studio per dargli un seguito. Dopo appena nove mesi, a giugno 2012 viene immesso sul mercato Following Sea: senza ambire agli scenari da avanguardismo rock di "Worst Case Scenario" e "In A Bar Under The Sea", la band realizza un capitolo (il settimo, se escludiamo una manciata di imperdibili Ep) quanto meno rispettabile e godibile.
Le premesse sono subito ottime, con "Quatre mains", declamata in francese e ricca di atmosfere da spy story, che apre i giochi imponendosi come miglior traccia del disco. Nel suo sviluppo però il lavoro pecca di discontinuità, con cadute di tono anche vistose, come nel caso dell'insopportabile "Crazy About You", più nelle corde dell'ipotetica boy band di turno. Gli altri momenti da salvare sono senz'altro "Hidden Wounds", con un finale epico in grado di riportare ai fasti dei giorni migliori, "Nothings", breve ballatona da mattonella, l'inaspettata e benvenuta botta d'energia di "Fire Up The Google Algorithm", la convincente conclusiva "One Thing About Waves".
Per il resto Following Sea si pone come un lavoro modesto e a tratti sbiadito, non certo lo spettacolo che dovrebbe mettere in scena chi vent'anni fa lasciava presagire ben altre evoluzioni. Oggi le sirene del guitar alt-pop, per giunta un po' troppo patinato, sembrano attirare molto più rispetto ad un percorso di effettiva ricerca sui suoni, e i dEUS perdono parte della propria freschezza, non riuscendo più a sorprendere l'ascoltatore.


Dopo il tour commemorativo del ventennale di "The Ideal Crash",  il terzo pluridecorato album della band, la macchina belga si è rimessa in moto nel 2023 esce How To Replace It

La band è quella di "Following Sea", ultima uscita datata 2012, dove, rispetto alla formazione degli esordi, rimane solo il violinista tastierista Klaas Janzoons  ad affiancare Barman. L’imperativo è cambiare rimanendo sé stessi, trovare nuove sonorità lasciando vivo l’approccio dEUS, quindi cambio di flusso compositivo, che ritorna totalmente nelle mani del cantante, mentre il gruppo si unisce nella fase di arrangiamento come succedeva nei dischi degli esordi. 

Tutto ciò si traduce in un'opera meno omogenea dei due dischi precedenti, e che risente probabilmente dei lunghi tempi di gestazione. Le atmosfere si riempiono anche delle sensazioni legate al passaggio d'età di Barman, ormai cinquantenne, quindi meno irruento e più compassato. Come dire, si nasce incendiari e si diventa pompieri, ma bisogna stare attenti che l’acqua non corroda le fondamenta. La furia e la spontaneità degli esordi è ormai quasi scomparsa ma non si sa da cosa sarà rimpiazzata, come sembra suggerire il titolo dell’album How To Replace It

Le sollecitazioni sono tante, ma la risposta rimane sospesa lasciata al giudizio dell’ascoltatore. La voglia di aperture orchestrali è presente nei timpani solenni che pompano la propulsione delll'opening track fino a catapultarci nei gironi dei dannati dove si intravedono le sagome dei primi Bad Seeds o nell'intro prepotente di “Man Of The House”, in cui convivono movimenti prog e aperture pop. Non mancano le chitarre scintillanti su cori gospel di “Must Have Been New”,e l’usuale classe di saper rendere memorabili i momenti più bui come l’r&b notturno “Dream Is A Giver”, o ancora le riflessioni sui postumi relazionali dell’ottima “Love Breaks Down”. 

La nostalgia, che in una band di cinquantenni può essere un’arma pericolosa, è dietro l’angolo e si materializza in “1989”, anno della caduta del muro, ma anche della morte del padre di Barman, allora solo diciasettenne, il tutto rievocato su sonorità del periodo e cantato da un Barman che insegue profondità alla Leonard Cohen. Fa capolino, anche se un po’ appannato, qualche rimando al suono passato della band, in particolare al periodo di “In a Bar, Under the Sea”, come “Simple Pleasures”, frutto di una jam session con CJ Bolland compagno di viaggio del periodo Magnus, o nell'andamento Beck/ Primal Scream di “Why Think It Over (Cadillac)”. 

Come era già successo con "Quatre mains" nell’album precedente, arriva anche in “How To Replace It” un brano cantato in francese. “Le Blues Polaire” è un azzeccato cambio di atmosfere con il suo fascino retro attualizzato dai tappeti di chitarre in feedback e potrebbe indicare una nuova direzione dei prossimi dEUS. Per chi li avesse persi di vista o dati per dispersi, “How To Replace It” dimostra che i Deus sono ancora in pista e anche se l’album non sia proprio a presa rapida, un po’ troppo lungo e con alcuni brani che stentano a prendere il volo. Che la freschezza e la genialità degli anni 90 siano un miracolo difficilmente ripetibile siamo quasi certi, ma che la band belga possa ancora sorprenderci ci speriamo. Quindi la fede nei dEUS è ancora viva. Aspettiamo fiduciosi. 



Contributi di Marco Pagliariccio ("Keep You Close"), Claudio Lancia ("Following Sea"), Lorenzo Montefreddo ("How To Replace I")