“The Ideal Crash” è un disco che nessuno si aspettava.
Non di certo da un gruppo di intransigenti rumoristi belgi con il culto per Captain Beefheart e Frank Zappa, quanto dedito a ritmi sbilenchi e ciondolanti à-la Tom Waits. Insomma, fino a quel punto i dEUS parevano tutt’altro che interessati al dolce melodiare. Certo, “Suds & Soda” e “Little Arithmetics” (rispettivamente dal primo disco “Worse Case Scenario” e dal secondo “In A Bar Under The Sea”) qualche slancio melodico, in alcune frazioni, lo serbano, tanto da riuscire a far breccia in numerose radio alternative del globo. Ma si trattava di mosche bianche in un patchwork di ritmi schizoidi, momenti di cabaret dadaista, graffianti lamenti di violino e deflagrazioni soniche (Sonic Youth e Pixies sono altre due passioni mai sopite della band di Tom Barman e Klaas Janzoons).
Tantomeno ce lo si aspettava nel 1999, un disco come “The Ideal Crash”.
Il millennio si apprestava a finire e il grunge e il britpop che, nel bene e nel male, avevano segnato la musica alternativa dell’ultimo decennio, avevano esaurito il loro potenziale espressivo. Due anni prima i Radiohead avevano pubblicato “Ok Computer”, orientando definitivamente la musica pop (almeno per quanto riguarda il mainstream) verso la contaminazione con la musica elettronica – quello che sarebbe poi successo con il loro disco successivo è storia della musica. Tutto quanto di rilevante sarebbe venuto di lì a seguire sarebbe stato dunque contaminazione, revival (è proprio tra '98 e '99 che Interpol e Strokes mossero i primi passi) o strettamente catalogabile come sottogenere (di lì a poco neo-psichedelia e post-rock avrebbero vissuto una vera e propria golden age).
In un contesto così frammentario e caotico, sarebbe stata proprio la band di Antwerp a scrivere quello che potremmo considerare l’ultimo grande disco alternative rock (nel senso classico della definizione) europeo del secolo.
Dopo una doppietta da integralisti del bizzarro come “Worse Case Scenario” e “A Bar Under The Sea”, “The Ideal Crash” è un ascolto a dir poco spiazzante, che all’epoca deve aver straniato non poco i fan intenti al primo ascolto. Gli angoli disegnati dai repentini cambi di ritmo erano stati smussati per favorire una struttura-canzone fluida e sinuosa, le linee esagitate delle chitarre avevano lasciato il posto a melodie chiare e ariose. Il violino di Klaas Janzoons aveva smesso di essere una presenza acuminata e disturbante per andare a guidarle queste melodie da favola – i rigogliosi ricami intessuti dallo strumento nella ballata primaverile “The Magic Hour” solo un paio di anni prima erano imponderabili, così come la chitarra di cristallo con cui danzano.
Anche la scelta dell’enigmatico artwork rappresentava una novità; per la prima volta non si trattava di un dipinto dell’ex-chitarrista della band Rudy Trouvé (scelta effettuata probabilmente dopo il divorzio con quest’ultimo, che aveva lasciato la band nel 1996 insieme al bassista Stef Camil Carlens).
Per molti fan e parte della stampa specializzata, “The Ideal Crash” rappresentò per la formazione un passo indietro. E in un certo senso, dal punto di vista della sperimentazione ad esempio, lo era. Si tratta però del sacrificio necessario che ha permesso la scrittura di dieci canzoni splendide, dai toni caldi (a tal uopo deve aver giovato il fatto che il disco sia stato registrato in parte a Ronda, nella soleggiata Andalusia), con arrangiamenti cangianti e ricchissimi, figli della migliore tradizione progressive europea, dalla quale mutuano non solo certe strutturazioni ma anche alcune atmosfere incantate o futuriste. A riascoltarlo, viene a galla l’idea che, fossero stati i dEUS americani o inglesi, “The Ideal Crash” avrebbe venduto ben più che duecentocinquantamila copie.
“The Ideal Crash” fu spiazzante non solo per l’estremo orientamento alla melodia e alla forma-canzone inediti per la band, quanto anche per l’incredibile varietà di generi e influenze (alcune imponderabili) che lambisce nel corso di un’ora di musica, tanto da poter essere considerato un compendio alternative rock degli anni 90. Del resto, Tom Barman, principale autore dei brani (ruolo che in passato aveva diviso con il più estremo Carlens), è stato molto chiaro riguardo al processo creativo dietro al disco: niente paletti. La band entrò in studio con dieci abbozzi di canzoni e l’intenzione di trovare loro la miglior forma musicale possibile, senza limitazioni di sorta. Forma musicale che sarebbe stata trovata nel corso di otto lunghi mesi di prove, durante i quali le dieci canzoni vennero incise e reincise in molteplici vesti, fino al raggiungimento del tanto agognato risultato perfetto. In questo modo, l’art rock della band finì con l'incrociare numerosi generi, dal grunge al pop futurista, dall’elettronica a reminiscenze folk, generando così (tanto per citare il titolo) un incidente perfetto.
I numerosi espedienti sonori vengono scambiati anche nel corso delle stesse canzoni, che grazie a una durata media tra i cinque e i sei minuti, dense di repentine variazioni come sono, risultano delle mini-suite prog, senza però perdere nulla in quanto a efficacia pop.
“Put The Freaks Up Front”, pare sia stato gridato da un giovane George Lucas al direttore della fotografia durante le riprese di “THX 1138” (suo primo leggendario lungometraggio), ed è il titolo che inaugura “The Ideal Crash”, assestando momentaneamente il disco su territori sci-fi. Granitico riff grunge, spossanti e continui cambi di tempo, un ritornello enigmatico strillato da Barman e deliziosamente contro-cantato dalla band, mentre le chitarre sfilano alla velocità della luce. Dopo la prima strofa il primo colpo di genio: un sofisticato intermezzo di ottoni jazzy viene chiamato a fare da contraltare al magma chitarristico.
Altrettanto cibernetica e sovraeccitata è “Everybody’s Weird”, con le strofe percorse da una linea di basso tempestosa, opera di Danny Mommens, e separate l’una dall’altra da un’irresistibile melodia di tastiera retromaniaca. Alla fine, durante il delirio sonico delle chitarre, fa capolino anche un sassofono free-jazz impazzito. Più o meno quello che succede nel finale di “The National Anthem” dei Radiohead, ma un anno prima e in Belgio. Vagamente radioheadiane sono anche le pennellate della chitarra acustica sui fondali elettronici della ballad “One Advice, Space”.
Posizionata subito dopo “Put The Freaks Up Front”, quasi a voler privare l’ascoltatore di punti di riferimento con il repentino cambio di sound, “Sister Dew” offre un’altra combinazione inedita di atmosfere. Prima una partenza fantasmagorica con un organetto che cita apertamente il trip-hop noir dei Portishead, poi un incalzante ritmo giocato sul rullante e un arpeggio folk, infine una deliziosa orchestrazione per archi di Janzoons. E’ un brano che suona molto dolce, ma che riserva un retrogusto amaro e ingannevole, come l’ambiguissimo testo di Barman. Qui impegnato nel recital di una terribile confessione, quella di un uomo che non si capisce bene se abbia ucciso la sua relazione o la sua partner (essendo l’interlocutore una suora, la “Sister Dew” del titolo, propendiamo per la seconda ipotesi). Eros e Tanatos, Eros è Tanatos.
Che l’amore sia per i dEUS un sentimento complicato, disturbato, lo testimonia anche “Magdalena”, sin dal suo inizio, in cui un torbido ronzio interferisce con l’arpeggio di chitarra cristallino. La traccia numero sette del disco porta il nome di una ex di Barman, con la quale quest’ultimo ha avuto un rapporto burrascoso, le cui contraddizioni e le sue tendenze autodistruttive vengono raccontate in un testo che non lesina particolari e stralci di conversazioni. Frasi confuse e piccate, molto simili a quelle che ci è capitato di dire o di pensare nei momenti più travagliati delle nostre relazioni, e che dunque creano immedesimazione e forte connessione.
Molto intima è anche “Let’s See Who Goes Down First”, un pezzo storto e dunque vicino alle influenze waitsiane dei primi dischi, in cui il frontman cantilena quasi sottovoce delle sue passate tendenze suicide. Molto suggestivo il gorgo di archi in cui le chitarre molleggiate mimano i cortocircuiti di un esaurimento nervoso.
Al centro del disco troviamo la title track, un alternative rock uptempo propulso dalla batteria rutilante di Julle DeBorgher, e “Instant Street”: il brano più famoso dei dEUS (titolo per il quale se la gioca, forse, solo “Suds & Soda”) e zenith dei loro live da lì in poi. Incredibile peraltro come il brano con le partiture più complesse del blocco, sia anche quello con la melodia più immediata e indimenticabile. Le strofe strafottenti ciondolano in un paesaggio impressionista abbozzato dalla chitarra acustica e da un banjo squillante, oltre che dagli onnipresenti archi di Janzoons. Un bozzetto idilliaco, prima teatro dello scontro tra il tono smargiasso di Barman e i backing vocals vellutati di Ward, poi destinato a venire ingoiato dall’incredibile crescendo finale. Una lunga e vorticosa ascesa giocata sulla progressiva aggiunta degli archi e l’irrobustirsi graduale della distorsione della chitarra, in poche parole: uno degli outro più avvolgenti ed emozionanti degli anni 90. Assolutamente da recuperare anche il videoclip, con la band e un gruppo di ballo che evadono da un inquietante night-club (lo storico Café d'Anver) e danzano scompostamente per le strade di Antwerp.
Onirica di nome e di fatto, “Dream Sequence #1” è stata ispirata a Tom Barman da una melodia che avrebbe sentito in sogno. Vero o no che sia, dubitiamo che Tom l’abbia sognata così ricca di particolari e turbamenti come l’ha poi scritta e registrata con l’aiuto del fido secondo chitarrista Craig Ward. Coautore di molti brani, che avrebbe lasciato la band poco prima del successivo “Pocket Revolution”, disco che avrebbe risentito pesantemente della sua mancanza. Laddove i dEUS reagirono alla fuoriuscita di Trouvé e Carlens con la fantastica reinvenzione di “The Ideal Crash”, non si sarebbero invece mai ripresi da quella di Ward, imboccando un seguito di carriera di buon (quando non ottimo) livello, ma incapace di eguagliare i picchi registrati fino a quel momento.
17/03/2019