Di origine serba, John Petkovic si ritrovò a Cleveland (Ohio), costretto, manco a dirlo, a dover fare i conti con la leggenda più viva del luogo: i Pere Ubu, la band che negli anni Settanta aveva fatto del garage-rock materiale d'avanguardia, roba da teatro espressionista, esercizio di auto-flagellazione e, al contempo, di liberazione di un subconscio che, sempre più, col passare degli anni, veniva a identificarsi con quello di un'intera nazione. La Cleveland di inizio anni Ottanta conservava ancora quel volto disfatto e malconcio che aveva ispirato alla band di Thomas & co. capolavori del calibro di "The Modern Dance" o "New Picnic Time".
E' proprio arrovellandosi le cervella su dischi di siffatta statura che, nel bel mezzo del 1983, in mezzo ai fuochi incendiari dell'hardcore, Petkovic, tra un lavoro saltuario e l'altro, compone i tasselli della sua creatura più famosa, battezzandola, dal nome di una canzone di Yoko Ono, Death Of Samantha. Ovvero: Doug Gillard alla chitarra solista, David James al basso e al pianoforte (e a dar man forte alle parti vocali, quando se ne presentava l'occasione), Steve Eierdam (meglio conosciuto come Steve-O, uno dei personaggi musicali più pittoreschi del periodo) alla batteria e, ovviamente, John Petkovic alla voce ed alla chitarra ritmica.
Come da copione, la band iniziò a farsi le ossa nei locali cittadini, ritornando anche sui luoghi in cui il Papà Ubu aveva fatto le sue prime vittime… Erano loro i figli prediletti, certo. Ma avevano smussato gli angoli, riavvicinandosi al rock corposo e fragoroso dei Settanta.
Nel 1985, per la St. Valentines Records (l'etichetta personale dei Nostri), esce il primo singolo ufficiale, "Amphetamine/Simple As That", con un avvertimento alquanto sinistro in copertina: "If you look at yourself too long in the mirror, you'll see a monkey"… Come dire, un richiamo alle radici bestiali dell'uomo e un invito a vedere nella loro musica un sovrasenso di ordine "primitivista"…una presa di posizione dinanzi alla materia trattata, tale da farne corpo mutante, soggetto alla regressione stilistico-musicale (in chiave "garage") che i padri avevano attuato in maniera così sublime da costringere i figli a mutare direzione; e per ovvie ragioni, aggiungiamo. Si prenda proprio "Amphetamine" come pietra di paragone: ci trovi i Pere Ubu, la loro carica dissacratoria, ma non puoi esimerti dal notare un certo grado di ironicità beffarda, spesso quasi malsana e blasfema. La diresti glamorous, se il termine non sembrasse leggermente inadatto (ma fino a che punto, se si tiene conto che con la successiva sua band, i Cobra Verde, Petkovic evidenzierà ulteriormente le sue inflessioni glam?). Ma il destino dei figli è quello di scontare la pena fino in fondo. Ecco, quindi, che ritornano i fantasmi della Cleveland di fine anni Settanta. E trattasi di ritorno in grande stile, come il secondo singolo, "Porn In The Usa" - che comprende "Coca Cola & Licorice" e "Listen To The Mockingbird" - espone e sentenzia. E di lì a breve la conferma definitiva. I Death Of Samantha sono quello che i Pere Ubu avrebbero potuto essere se un giorno avessero deciso di mischiare le carte, guardando a certo (pop-)rock dei college americani. Ma le cose non sono così semplici, a dirla tutta. Perché la musica di Strungout On Jargon, esordio a 33 giri del 1986 pubblicato dalla Homestead, lambisce anche certa innodia senza fronzoli (pugno nello stomaco) dei migliori Clash e certa esuberanza "esistenzialista" di Stooges, Voidoids, Patti Smith Group, etc.. Ma bisogna che si scavi tra le pieghe. Che non si resti alla superficie. Perché in superficie trovi solo fluorescenze di rock'n'roll, anche se dei migliori. Ma sotto si agita, in preda alle convulsioni, molto di più.
Ecco allora la spaventosa potenza in nuce di "Coca Cola & Licorice", orgia di perversioni garage che erompono in successione, ma con intensità sempre maggiore e col clarinetto (!) di Petkovic a rimembrare poco gentili escursioni di mastro Thomas alla musette. E, dopotutto, la stessa tessitura strumentale è pere-ubiana senza alcuna possibilità di smentita. Così, il basso pulsa sghembo e funky, mentre le distorsioni insistite delle due chitarre ricordano le farneticazioni al limite del noise di Tom Herman, prima che il collasso finale suggelli la parentela in maniera inequivocabile.
In "Simple As That" ci trovi i ragazzi di Athens che pestano quintali di gioia a colpi di progressioni impareggiabili di rock'n'roll tra scie trillanti di chitarra, a reiterare un dramma interiore, cinguettanti come in un calderone di Feelies e Big Star, e una voce rabbiosa, ululante, in preda a flussi logorroici di coscienza bacata. Eppure, composta, quasi ripiegata su se stessa, solitaria. La dimensione della giovinezza, al confine con l'inganno e la fine. Esuberanza e disperazione sottile…
"Bed Fire" è lì, sulle stesse coordinate, ma caracollante, debilitata da un'ansia assassina. "Ham & Eggs 99c" potrebbe, invece, provenire direttamente dal catalogo Television, pronto com'è a sfoggiare un impasto armonico che suona quasi "subliminale" se si considera che, in fondo, trattasi di un vero e proprio delirio anfetaminico, degno dei baccanali macabri dei Tragic Mulatto. In "Conviction", di contro, ritorna un'aurea di magia: accordi sovrapposti e copulanti a suggellare un deliquio folk-rock che abbraccia il cuore. Il drumming suggella un amplesso dietro l'altro, con tutto il resto. I toni si rifanno minacciosi in "Grapeland": ancora folk-rock; ma dell'apocalisse. O apocalisse dello stesso.
Con "Sexual Dreaming" (in seguito ripresa in chiave spudoratamente punk dai New Bomb Turks) prende piede, invece, un boogie ferroviario che gronda sanguinolenti ferite stoogesiane e cita, di sfuggita, il velluto sotterraneo. "Turquoise Hand", nella sua insistita rappresaglia ritmica e nel suo vorticoso ascendere emozionale, gode nel giocare col punk-blues, abbandonandolo al destino di uno stralunato rockabilly.
Introdotta dai soliti accordi luccicanti, "Couldn't Forget 'bout That" espone, infine, un tipo di ballata che coagula tutto l'armamentario emotivo e musicale del disco, sublimando il loro sound in qualcosa di definitivamente unico e irripetibile: l'impasto ritmico, sincopato e creativo, degno erede della diade Maimone/Krauss dei Pere Ubu (ma quelli beefheartiani di "New Picnic Time"), le fragranze poppy (in una linea immaginaria che dai Byrds giunge fino al college-pop di Rem, Pylon, Smithereens e compagnia bella) e il cantato-recitato, ora drammaticamente isterico ora solennemente romantico di Petkovic (che lega idealmente Jim Morrison, Iggy Pop e soprattutto l'eccezionale Chuck Ivey - sberleffo, ironia, voragini psichiche - che fu leader e voce dei Debris). Finale tra escandescenze quasi new age di chitarre, questa volta direttamente protese verso il cielo, dopo l'infernale e impagabile farneticazione di John.
Con questo capolavoro impeccabile - che, tra l'altro, manco a dirlo, vende poco, pochissimo - i Death Of Samantha si conquistarono un posto d'onore nella scena alternativa americana. La registrazione in presa diretta - durata, fanno notare le note di copertina, solo sei ore - aumenta lo spessore emotivo e l'impatto musicale. Si ha, infatti, la sensazione di assistere a una performance live, in cui le canzoni si susseguono una dietro l'altra, senza mai perdere un grammo di ispirazione, perché, in fondo e a dirla tutta, quello di Petkovic è un teatro dell'assurdo, in cui tutto ciò che è scenografico vive di un effetto collagistico per niente dispersivo: i tasselli fondamentali del suo stile musicale, infatti, si configurano come parodia "drammatizzata" di un decennio o poco più di "art-rock". Dei Pere Ubu (il napalm dell'artisticità rock) e di altri, si è già detto poco innanzi. Quello che conta, adesso, è rinverdire i debiti che i Death Of Samantha hanno con le scorrazzate glam della esuberante proto-wave radicale dei fondamentali e ultra-dimenticati Debris (di cui non possono essere taciute, tra le altre cose, le atmosfere grottesche e i toni allucinati del loro unico disco-capolavoro: "Static Disposal", anno domini 1976); che dire, poi, del primitivismo "garage" di matrice freak-utopica dei Simply Saucer? E di certe scintille motorik-edeliche? Insomma: il suono della band di Cleveland è unico, ma nel suo essere multi-sfaccettato.
Il tour successivo alla pubblicazione del disco evidenziò un altro elemento importantissimo della saga. I concerti dei Death Of Samantha conservano ancora oggi, per chi ebbe modo di assistervi, un alone di mistero e di leggenda. Steve Albini si dichiarava grande nemico della compagine di Cleveland, poiché, a suo dire, più concentrata sull'aspetto "coreografico" della performance che su quello specificatamente strumentale e musicale. Certo è che Petkovic (che spesso si dava fuoco alle braccia mentre cantava, oppure sputava liquirizia dalla bocca, e via di questo passo) & co. non facevano granché per mettere a tacere il buon Steve. Tra l'altro, cosa dire di Steve-O, che era solito arrivare sul palco vestito da Elvis in pruriginosa versione femminile (!), oppure trasportato dentro una bara? Spettacolo, certo… Tra una cover "destabilizzante" della "Werewolves Of London" di Warren Zevon, la crema hard-rock di "The Set Up (Of Madama Sosostris)", la citazione delle radici in "Blood And Shaving Cream", l'isteria post-nucleare di "Yellow Fever" e i toni sinistri dello strumentale "American Horoscope And The Bad Prescription" (con tanto di manipolazioni di nastri), l'Ep Laughing In The Face Of A Dead Man (1986), pur allentando la presa, contribuì a tenere desta l'attenzione intorno ai Nostri.
Dopo l'apparizione con "Blood And Shaving Cream" sull'antologia "The Wailing Ultimate" (1987), approntata dalla Homestead, e l'abbandono di David James (rimpiazzato da Dave Swanson), nel 1988 giunse la definitiva consacrazione artistica. Disco di una compattezza assoluta, Where The Women Wear The Glory And The Men Wear The Pants (1988) è, infatti, il loro disco insieme più rock e più famoso, e, per alcuni, la loro vetta artistica. L'opera rappresenta la maturazione definitiva del sound che ancora su Strungout On Jargon e sull'Ep successivo presentava caratteri di instabilità, imputabili, tuttavia, all'impronta sperimentale (di cui "American Horoscope And The Bad Prescription" rappresenta il momento culminante).
L'iniziale "Harlequin Tragedy" spiattella un rock viscerale, granitico e meravigliosamente innodico. I riff e le triangolazioni delle due chitarre (che citano a più non posso i guitar-hero dell'era psichedelica) si scontrano con le scosse telluriche del basso, ognuno da par suo - insieme al drumming secco e tagliente - a martellare in perfetto stile art-punk, ma creativamente più incisivo della media del periodo, come dimostra, oltremodo, il finale per soli incrociati di chitarre e piano honky-tonk. Ancora potenti e rabbiosi, in "Good Friday" i Nostri si prendono il lusso, nel bel mezzo del cammino, di una superba digressione strumentale, a stemperare la tensione che contraddistingue l'inizio e la fine: le chitarre bisbigliano una addosso all'altra droni filiformi e distorti, il basso vibra in metallica eco di fondo, prima che con scatto nervoso la voce di Petkovic risuoni la carica con ghigno assassino, metà cantato metà recitato-invettiva.
"Sylvia Plath" - cover di un brano di Peter Laughner - è il momento più commovente del lotto. Da un musicista suicida a una poetessa suicida: il filo sottile è un'emozione che annoda la gola, una meraviglia fatta di arpeggi delicati e archi evanescenti, a sottolineare la drammaticità impenetrabile eppure intensamente "vera" di una ballata che, con circolarità infinita, bisbiglia all'anima il senso del suo frantumarsi in mille, delicate schegge di poesia, come questi versi che dicono tutto ciò che la musica aveva già, irrimediabilmente, evocato:
Sto imparando la pace, da me quietamente posando
Come posa la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
(Sylvia Plath, "Tulipani").
Valorizzata da un piccolo intervento di corno inglese e da un intermezzo per vibrazioni psichedeliche, "Lucky Dog (Lost My Pride)" ha un andamento marziale, spezzato. La frenesia punk, versione rockabilly, in circolare danza, torna a fare proseliti in "Monkey Face", mentre "Savior City" fonde Clash (gusto metropolitano e fragranze anthem-iche), fiati r'n'b e glissando acidi. Apoteosi camaleontica del canto di Petkovic, del suono lisergico e muscoloso delle chitarre, della sezione ritmica perfettamente a suo agio nel costruire partiture frenetiche e preziose, questo è il disco in cui i Death Of Samantha diventano dei classici. Suono che scivola su di un tapis-roulant di frammenti passati e presenti, rinnovando e personalizzando influenze disparate, grazie a un affiatamento strepitoso, evidente, se ancora ce ne fosse bisogno, nella veemenza "calcolata" di "Staring Through It Now". "That's All That Matters" è, invece, una ballata in punta di piedi che evidenzia, en passant, il debito di Petkovic verso l'esistenzialismo liricamente dolente di Laughner. Chiude, "Blood Creek": perfetto sigillo del loro stile.
Perfezionato, dunque, questo stile e diminuito l'impatto sperimentale, la band si avventura tra le pieghe del suo ultimo disco, Come All Ye Faithless (1989), con la convinzione di rivisitare quanto prodotto partendo da una prospettiva maggiormente claustrofobica e inquieta. Ma, nonostante questo sia, a livello di popolarità (si fa per dire…), un periodo florido, la band finisce per esprimere un suono che si fa carico di un'inquietudine sofferta e inestricabile. Il clarinetto beefheartiano che spunta dal galoppo di "Roses Rejoice" unisce idealmente i due estremi della loro ispirazione con sentori narcotizzanti. Tuttavia, anche se il rock aggressivo e stradaiolo di "Geisha Girl" e quello più pacato di "Looking For A Face" riportano ai climi infuocati del disco precedente, è oltremodo evidente quanto il tutto abbia assunto connotati meno terribili e più calcolati. Senza più colpo ferire, la loro proposta gioca sulla sua stessa classicità una scommessa di normalizzazione che non può più vincere, se non considerandola in una prospettiva più ampia, ovvero proiettata verso il futuro prossimo venturo. E, così, "Rosenberg Summer" si crogiola in un fluido svolgersi di romantiche filigrane ballad, aggrappate a ponti psico-melodici di chitarra e scie deleterie di violoncello. Il crooner di Petkovic tradisce una certa artificiosità, ma resta sostanzialmente un magistrale esempio di canto visceralmente creativo. Al blues di "Now It's Your Turn (To Be A Martyr)" e al retrogusto hard di "Machine Language", segue lo psico-dramma di "Oh, Laughter", lunga digressione "nera" prima dei Clash purificati di "New Soldier, New Sailor". Il carillon di "Nostalgically Yours" introduce un altro lungo excursus psicologico: "Come To Me", senza dubbio il pezzo più coraggioso e ispirato dell'intero lotto, nonché testamento ultimo della band. Rituale scandito da un ritmo marziale, con punte improvvise e ricadute altrettanto vorticose. Sembra una sintesi tra il blues di Nick Cave e il teatro musicale di Jim Morrison. La variazione ubriaca sul tema di "Happy Birthday To You" in "Amnesia" non fa altro che aumentare il tasso di straniamento del disco, che, in definitiva, risulta essere tutt'altro che disprezzabile e che, anzi, merita un ascolto attento, soprattutto in considerazione del fatto che i Cobra Verde continueranno su questa strada, pur con le dovute, ovvie, scorciatoie del caso.
Nel frattempo, recuperati i dischi di cui sopra, non vi sarà difficile convenire sul fatto che i Death Of Samantha abbiano rappresentato una delle esperienze più alte, eccitanti e creative del rock anni Ottanta.
Strungout On Jargon (Homestead, 1986) | 7.5 | |
Laughing In The Face Of A Dead Man (Homestead, Ep, 1986) | 6 | |
Where The Women Wear The Glory And The Men Wear The Pants (Homestead, 1988) | 7 | |
Come All Ye Faithless (Homestead, 1989) | 7 |
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