STEGOSAURO - STEGOSAURO (To Lose La Track / Friends of Mine (JAP) / Dischi Decenti / Longrail / È Un Brutto Posto Dove Vivere / Troppistruzzi / 1a0, 2023)
midwest emo, math-rock
Dedicato a chi sta ancora cercando il suo posto. Il primo extended-play dei vicentini Stegosauro si destreggia tra ricordi frammentari estratti da pagine di diario, immersi in atmosfere che mescolano midwest emo, math-rock, e dissonanze screamo che rievocano i Touché Amoré di “Stage Four”. Si parte con l’urgenza dettata dagli arpeggi e i virtuosismi di batteria di “Jap'n Cazz”, gioco di parole di rimando ai Cap’n Jazz, primo progetto dei fratelli Tim e Mike Kinsella, nonché influenza primaria della band, proseguendo con gli strattoni in zona Mineral e le dichiarazioni d’intenti delle liriche di “Squalo”, e le speranze esternate tra i riff e i passaggi melodici à la Sunny Day Real Estate di “Van Houten”. La ricerca di nuove forme di linguaggio per potersi capire e riscrivere tutto da capo è al centro di “Tangram”, il cui titolo fa riferimento al noto rompicapo cinese. Fanno seguito i ritmi e i cori della più breve “Streghe”, avviandosi a conclusione con l’intro sottile in direzione post-rock in vena Black Country, New Road della strumentale “Buonanotte Raga”, dominata da un intervento di tromba che ingrana in uno slalom armonico di rimando ai Via Luna, che intreccia math-rock e jazz. Leggero e scorrevole, questo primo assaggio del quartetto di Vicenza getta dei piccoli semi pronti a germogliare sia in materia di songwriting, sia a livello di opportunità d’espansione delle trame sonore. A fronte di alcuni recenti cambi di line-up, vedremo cosa riserverà l’imminente futuro agli Stegosauro (Martina Vetrugno, 7/10)
PALMER GENERATOR - VENTRE (Bloody Sound Fucktory, 2023)
space-rock
I tre Palmer Generator si ripresentano, a tre anni dal loro exploit “Mandrie” nell’album-split coi Great Saunites (2020), con il quarto “Ventre”, sempre e comunque concepito per parti o movimenti di sinfonia, sempre e comunque strumentale. L'inizio indiavolato, più che altro ancora un riscaldamento, attinge di quel tanto al post-hardcore di marca Refused per assumere movenze quasi di fandango. I 10 minuti della seconda parte attaccano con un poema d'avanguardia da cui scaturisce una corsa per impulsi ipnotici che dapprima si potenzia e poi si sfalda fino a divenire danza cosmica: un numero elegante e intenso (anche se qua e là pura forma). La terza (15 minuti) analogamente fa germinare la sua melodia quasi liturgica da tintinnii criptici e sembra plasmarla in per addizioni e farla diventare eroica, invece preferisce una piega fosca e tonante finché si amplia a requiem Pink Floyd-iano per firmamento inquieto. Coerentemente il finale completa questo smarrimento psichedelico, che sa ormai di inesorabile, pure drogandolo di nuovi sballi (clangori, campanelli, tonfi, spasmi e ultime esalazioni) che, ancora, importano qualcosa degli stralunati poemetti psicospaziali di Barrett. Pur ripetendo pedissequamente modi e intenti del complesso jesino, la suite compie un altro passo importante nella traduzione delle dinamiche irrazionali e imprendibili dell'improvvisazione collettiva nell'estetica contorta del post-rock. L’insieme ha i suoi picchi trascinanti e profondi, talvolta surreali, di baudelairiano dualismo paradiso-abisso. Buon lavoro grafico all’artwork dello stesso Mattia Palmieri (Michele Saran, 7/10)
IRENE BUSELLI - IO, IO, IO (Pioggia Rossa Dischi, 2023)
songwriter
Messo a segno un primo singolo, “Dai amore voglio un cane” (2019), ed entrata a far parte del collettivo di autrici femminili Canta Fino A Dieci, Irene Buselli (Genova) mostra di fare ancor più sul serio realizzando il debutto “Io, io, io”. Gli spunti sono quasi geniali a partire dal fitto flusso di coscienza a metà tra Joanna Newsom e Tracy Chapman di “Così sottile”: gli arrangiamenti in crescente tripudio cameristico la trasportano dalla timidezza folksinger a una robustezza di danzatrice jive. Insieme analoghe e diverse, “Scusami” procede come una Mia Martini afona e sovracuta attraverso un assetto crepuscolare di concerto campestre, mentre “La goccia” e “Fili” adattano il pathos nervoso piano-archi di Tori Amos, talvolta aumentandolo con slabbramenti psichedelici, mutazioni jazz, cabalette decadenti. La canzone più personale (e più leggera) è probabilmente “Il palombaro”, di fragile balletto modernista per batteria povera e refrain logorroico (vaga reminiscenza della Mina virtuosistica di “Brava”). Pur non arrivando all’album vero e proprio (troppo corto di durata e troppo quaderno di status), l’elettronico Filippo Quaglia e il neoclassico Raffaele Rebaudengo - stesso tandem dietro le quinte di “Maqroll” (2021) di Federico Sirianni -, imbastiscono particolari orchestrazioni di relativa ma distinta creatività. Il risultato produce non canzoni ma liberi, dolceamari psicodrammi con spessore poetico. La firma finale l’appone comunque la Buselli cantante, quando li fa spaziare dal lamento rarefatto al farfuglio nevrotico, dal bisbiglio screziato al saldo vocalizzo. Premio Bindi 2023, Premio Fausto Mesolella (Michele Saran, 6,5/10)
MIND/KNOT - ESIGENZA (Time To Kill, 2023)
hardcore-punk
L’hardcore italico vecchia scuola ancora vive e lotta grazie al quartetto capitolino dei Mind/Knot e al loro “Esigenza”. D’ortodossa ordinanza nell’album sfilano metalcore come “Broken Light” e “Wrath” (una delle più devastanti) e thrash-core come “Nightmare” e “Rise Up”, oltre agli incitamenti a valanga di “Obey” e a una “Mostro” che potenzia il suo messaggio unendo Converge e skate-punk losangelino. Altrove, come in “My Queen”, inventano dinamiti horror-noise con effetti riverbero, in “Stop The Blood” variano continuamente scenario (truculento) nel classico pezzo da un minuto dell’hardcore. Di più, nella successione tra “Perpetual” e “Killed By Faith” spandono un minuto di tortura di feedback chitarristico per introdurre un ramalama dinamitardo, così come nella successione tra “Witches” e “Keep Me Alive” prolungano un rallentamento stridente in una serenata enfatica e disperata. Successore del primo “Eat The Leaf” (2021), ne è deciso miglioramento per violenze lucide, eresie di generi oltre-punk e assalti d’impatto. In seconda battuta ci sono anche coscienza politica (antimilitarista, soprattutto, ma anche socioeconomica) e coscienza artistica (una supervisione sull’intero disco più che sul singolo pezzo). Affiatamento di gruppo - il nuovo Roberto Cadau, più Yari Caramore e Simone Perna - coronato dal carisma canoro di Marco Burrascano (Michele Saran, 6,5/10)
FERDINANDO ROMANO - INVISIBLE PAINTERS (Jam/UnJam, 2023)
post-bop
Per il capitolo tutto personale “Invisible Painters”, che a differenza del predecessore “Totem” (2020) si premurava di specificare la prestigiosa presenza di Ralph Alessi in formazione, Ferdinando Romano va per una piccola rivoluzione elettronica, affiancando sintetizzatori (anche modulari) e campionatore al suo double bass, e aggiungendo l’austriaco Elias Stemeseder, pianista ma pure appassionato di tastiere (Prophet 5 su tutte). Completano i clarinetti di Federico Calcagno e la batteria di Evita Polidoro. Tre i gioielli. “The Dreamers” genera la sua ambientazione desertica-incantatrice da tremoli strumentali e campioni (il celeberrimo “I have a dream” di M. L. King) che poi svapora in gesti eterei. Agli ostinati di tam-tam misteriosi, i fraseggi radi e le swingate suadenti dei quasi 12 minuti di “La figurazione delle cose invisibili” l’elettronica imprime un tarantolato cambio di tempo e spalanca all’improvvisazione d’avanguardia. Dilatata eppure raddensata in una astratta, sciolta improvvisazione piano-clarinetto suona invece “Vincent’s Room”. Tracciando una linea ideale tra questi pezzi salta fuori un mini coraggioso d’esoterico intrigo avviluppato all’alterità. Un filo sotto par e non sempre con eccellente interplay gli altri componimenti, ma il solo di piano di Stemeseder in “Origami Playground” strappa applausi (Michele Saran, 6,5/10)
CALITYS - SONGS OF UNEARTHLY LONGING (Cyclic Law, 2023)
gothic
Daniele Serra e Mara Lasi fanno ancora coppia, stavolta a nome Calitys, per “Songs Of Unearthly Longing”. Rispetto al canone del gotico classicheggiante vengono modificate poche variabili e talvolta in maniera distratta: il lied pacato di “Lake Of Bliss” si regge su poco più di una foschia in sordina; il pianoforte rimpiazza la chitarra nell’emulare il tipico rollio del folk per “Heart And Edgy Stone”, prima che l’humming diventi severa declamazione poetica; la ballata di “What River Told Me” non si lascia scalfire dalle distorsioni acide in sottofondo. Qualità più seducentemente cinematiche si mostrano in “Sky Torn Open”, con una quinta di tempesta e cristalli di rituali, e nella lunga “Open This Door” di compostezza chiesastica, sinistra nella sua cadenza quasi metronomica, imbellettata con vaghi umori sinfonici e leggermente inasprita da stridii di frese industriali in lontananza. Terza incarnazione della simbiosi artistica Serra-Lasi dopo Chirleison e Medusa’s Spell, qui insaporita in trio con la lituana elettroacustica Daina Dieva responsabile dei momenti migliori dell’album, in un rinnovato patto votato all’equilibrio più delicato, persino vulnerabile, tra scuro contralto alla Jarboe e scenografie caduche. Il rovescio (si senta la raminga cavatina pianistica che chiude tutto) è una musica senza sbocchi empatici al polo opposto del travolgente, ma anche di eleganti rarefazioni. Nome preso dal Calitys Scabra, insettino delle conifere che da adulto si confonde con le cortecce. Scatto di copertina di Dieva (Michele Saran, 6/10)
SANTA CHIARA - IMPORTED (Kill Rock Stars, 2023)
songwriter
Già enfant prodige del violoncello in tour per l’Europa, la partenopea Chiara D’Anzieri decide d’immigrare negli States per intraprendere la carriera di cantautrice. Spinta vincente la dà il suo incontro-sodalizio-matrimonio con Ron Gallo. Ribattezzatasi Santa Chiara, crea così il suo debutto improntandolo proprio alla sua vicenda umana e artistica, “Imported”, un concept su sé stessa. Al lato musicale canzoni come “25”, “Would You Like Some Tea”, “Worth It Or Not” e “Always Before”, spesso cantate tutte d’un fiato, la presentano tenera e pimpante ragazzetta ye-ye per l’era Weyes Blood. “Visa” alza la posta accostando spinta pop-punk a creatività graffittista. Con “When You’re Not At Home” si cuce un po’ troppo addosso un passatismo vintage ormai non più graffiante (le ruba infatti la scena un assolo alla Harrison in coda), e con “Dear Friend” diventa una Bush molto minore. Picco di questa parte melliflua è allora “What Has Gotten Into You”, col suo ritornello-mantra in una solenne costruzione Nashville-pop. Viziano il disco motivi e melodie di presa scarsa e difetti di arrangiamento. Chapeau all’utilizzo di mellotron e chitarre bizantine di timbro Rickenbaker (“Peach Tree”), ma il modo va spesso in sovrappiù: tanti assoli incapaci a dare la vitalità che forse vorrebbero e, al contrario, poca buona alchimia tra canto e suono d’insieme (Michele Saran, 5,5/10)
GIULIO STERMIERI - FORT DA (Maple Death, 2023)
electronica
Tastierista jazz dell’entroterra modenese titolare di Stopping, Mizar, Bred e Yabai Quartet, oltre che co-fondatore dei collettivi Impulse Respone e Effetto Brama, Giulio Stermieri prosegue come sperimentatore elettronico solistico in “Fort Da”. Negli 8 minuti di “Crepuscular Moths”, sorta di studio “ecosistemico”, liquefa un generico pezzo di musica techno-industrial, e in “Wide Plain Desolate Place” assottiglia incroci di polifonie cibertroniche a frinii indistinti. Il momento col maggior effetto è forse il più breve “Instruction On Forgiveness”, dove brandelli di trillanti organi presi dall’epoca psichedelica d’antan vagano in uno spazio astratto. “Surprise Results Of Old Plans” invece concerta germogli di glaciazioni iridescenti. Anche presentata espansa a trio dal vivo nel 2022, questa ricetta musicale d’aliene interazioni uomo-macchina avrebbe fatto faville nei primi anni 60 delle “novissime” ricerche neoavanguardiste, come pure tra i folli artisti space-age. Nel 2023 accusa un’endemica anemia nel suono e nelle scelte. Strumentazione di tutto rispetto: Farfisa, campionatore, Ebowed Piano, piano preparato preregistrato, Arp Odyssey. Edito in digitale e su cassetta (Michele Saran, 5,5/10)
WASHMACHINE - MUTISMO SELETTIVO (Feel, 2023)
songwriter
A parte l’inno in coro d’apertura (“Non c’è”), pezzo-cardine del primo “Mutismo selettivo” di Washmachine (al secolo Benedetto Ciucci) è proprio quello eponimo, un vortice corale che espone un uso originale dell’apatia trap, dell’autotune “nichilista”, su un motivo intimo di melodica degno degli Eels. Un passo sotto sta la salmodia folle ricolma di riverberi di “Il vuoto siderale intro”. Oltre a questa linea rossa tracciata sulla vocalità, altra direttrice del disco la incarna la voglia di tastiere elettroniche analogiche, e si esprime nella melodia synth-pop e il canto di nuovo apatico-cibernetico di “Falso contatto”, ma in parte anche nel pimpante autoritratto di “Evanescente” e nel quasi-rap pontificante del seguito, “Evanescente pt. 2”. Esempio riuscito sì e no dell’individualismo afferente al cantautorato dei loser post-pandemia. In bilico tra solito e insolito: tende a pendere verso il solito. Qua e là sospinto da una convinta surrealtà, non è esente da vuoti d’idee e svagatezze assortite. Non indifferente ruolo di Carmine Minichiello al sound-design (Michele Saran, 5/10)
DON ANTONIO - LACOSTA (Crinale Lab, 2023)
folk
Staccatosi dai suoi Sacri Cuori Antonio Gramentieri lancia l’ancor più personale progetto Don Antonio che lo porta infine a “Lacosta”, un piccolo bric-à-brac di varie ed eventuali, branetti di due minuti scarsi di durata media, perlopiù acustici, composti per colonne sonore di serie e docufilm. Dai temi country leziosi e ponderosi di “Pedro” e “1979” (questo con synth in sottofondo), si arriva all’inoffensivo country-blues di “Blu spazio blu”, passando per l’unica melodia decente, una “Roccaccia” che potrebbe fare da piccolo interludio in uno dei tardi dischi di Tom Waits, e l’unica chitarra distorta nell’eponima “Lacosta”, un abbozzo di roots-rock non meglio sviluppato. Il resto non di rado sconfina nella muzak (“Al verde”, “Non piove”). All’opus numero quattro l’artista romagnolo involve in uno strumentale appassito. Lo si scopra e apprezzi piuttosto per “Don Antonio” (2017), affare di band in un patchanka di folk desertico, noir, slavo e siculo, per la mutazione in cantautore heartland frammisto alla sensibilità pop italica ne “La bella stagione” (2021), e pure per le pensose meditazioni post-Calexico di “Colorama” (2022) con i Graces di spalla (Michele Saran, 4/10)