Dall'unione tra OndaRock e il mensile Rockstar - due testate ispirate alla stessa idea di libertà e avversione per i pregiudizi - nasce una nuova rubrica, in cui ritroviamo tutte le intuizioni e gli spunti critici che Giampiero Vigorito e la sua squadra seppero regalarci nel decennio magico della rivista, gli anni 80.
Il primo numero di Rockstar uscì (dalle ceneri della rivista Popster) nel settembre del 1980 al costo di 1.500 lire/84 pagine. In quel periodo di incontrollata euforia musicale e di emancipazione dai vincoli ideologici della (ormai vetusta) critica italiana, si sviluppò un concetto nuovo di rivista musicale, in cui la cultura della grafica e dell'immagine assurgeva (finalmente) a elemento-cardine, unita a una voglia sincera di raccontare la vivacissima scena musicale del periodo in tutte le sue sfaccettature. Un'operazione lucida e lungimirante, tutto sommato analoga a quella compiuta sul piccolo schermo da Carlo Massarini con il suo rivoluzionario Mister Fantasy.
Il fatto di aver, seppur per pochi anni, partecipato a questo percorso (alla fine dei 90's) non può non aggiungere una piccola punta di orgoglio personale all'iniziativa.
La prima puntata è dedicata ai Prefab Sprout e al loro gioiello "Steve McQueen", datato 1985. Con la recensione di Giampiero Vigorito, firma storica del nostro giornalismo musicale, dalle trasmissioni radiofoniche Rai alla direzione di Rockstar e alle enciclopedie del rock. (C. Fab.)
Prefab Sprout
Steve McQueen
(Kitchenware, 1985)
Questo disco è troppo bello. Troppo bello per sporcare i suoi suoni con qualche spicciolo di chiacchiera, troppo toccante per rischiare d’incrinare quella sottile lastra di benessere che copre ancora le nostre emozioni, troppo puro per accendere solo cinque stellette.
I Prefab Sprout sono degli angeli caduti. Li abbiamo raccolti, gli abbiamo stirato le ali un po’ spiegazzate, abbiamo atteso che riprendessero a vibrare. E subito, le prime sillabe, ci hanno prodotto un senso di vertigine che non riusciamo ancora a smaltire. Paddy McAloon è un genio. Un genio che canta come un bambino che, avendo da poco scoperto d’avere una voce soave, vocalizza immediatamente, con naturalezza, senza alcuna forzatura. Prende il suo tempo, lo culla sulle ginocchia, dispensa una gioia profonda anche quando indugia su una parola o quando lo si scorge intento ad attizzare quella subito seguente. La sua voce si avvolge attorno a qualche linea di basso, morbida e profonda come delle impronte sulla neve fresca; alita contro un cristallo che sta per andare in frantumi e vi disegna sopra delle figure infantili. Poi si getta in un momento su una chitarra come se si dovesse aggrappare a una pertica che lo salvi dal precipizio, riprende il tono bruscamente e, infine, ricade in piedi con la grazia di una ballerina. Quello che ne viene fuori sono undici canzoni, undici stati d’animo, altrettante carezze portate da una mano a forma di cuore. Questo disco è troppo bello.
Un disco concepito e registrato in uno stato di grazia in cui si è assaporata la gioia dei grandi disegni partendo da quel gusto un po’ acre che ha la mina di un lapis tra le labbra. La sua bellezza è una promessa di felicità. Una moneta coniata di fresco che viene fatta circolare senza mai farsi prendere dalla smania di accumularne un gruzzolo da una parte. E la musica non poteva che rappresentare questa prodigalità di fondo: le idee che corrono veloci, gli strumenti che intagliano ad una ad una le corde del sentimento, la voce di Paddy MacAloon che mostra la pelle d’oca sotto la brezza vocale di Wendy Smith, gli arrangiamenti e la produzione di Thomas Dolby che riescono a trarre il massimo equilibrio dalle forme più alte.
Credo che "Steve McQueen" sia stato registrato su un cuscino d’aria, a metà strada tra la terra e il paradiso. E questa linea immaginaria che i Prefab Sprout hanno tracciato davanti a loro è la stessa che ci spezza ancora il cuore in due. In questo album non ci sono fiori nei fucili, nessun ideale romantico da sbandierare, nessuna posa per inscenare una commedia di falsi attori. Sarebbe facile trascurarlo con il pretesto che questa musica sviluppa la sua bellezza in profondità senza mai farla esplodere. Paddy McAloon preferisce la candida fantasia della propria immaginazione alle panoplie conformi del prototipo rock. C’è del narcisismo in lui, è certo, ma nessun compiacimento nei Prefab Sprout in questo modo così prezioso di esporre delle canzoni tanto belle quanto accessibili. Qui la musica si fa così; con i mezzi toni, il lirismo dilagante, gli ornamenti di chitarre e di tastiere, le scosse funk temperate dal folk panoramico, il jazz liquoroso diluito nel grande calice del pop.
Pochi gruppi provocano attualmente tanti brividi come i Prefab Sprout. Quando Paddy McAloon graffia con una sola unghia Lloyd Cole e Morrissey, Steely Dan e Aztec Camera, lo fa con una strizzatina d’occhio divertito piuttosto che per un debito da saldare. Il suo gruppo non deve niente a nessuno se non a se stesso. Paddy McAloon non vuole essere un eroe alla moda o una di queste effigi in cemento per affamati di scariche elettriche. Egli è semplicemente un giovane drammaturgo moderno capace di estrarre anche dalla poesia più semplice le emozioni più alte e genuine. Quello che solo lui riesce a creare è quello spasmo cardiaco che trova nell’intelligenza la sua unica cassa di risonanza possibile. Qualcosa di ardente e di triste, di caldo e di emozionante, di bello, di troppo bello. "Swoon" era un disco che faceva sognare, che produceva voluttà e tristezza in maniera confusa e per questo ancora più grande. Ora "Steve McQueen", con il suo ribellismo languoroso, il suo continuo vento che ti pizzica le guance mentre corri solitario su una vecchia Triumph è riuscito ad andare ancora oltre. Il suo messaggio implicito è che la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni; ma che viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza. Questo disco non è una rivoluzione, ma vedrete che si finirà per arrivarci.
(Rockstar, 1985)