In cosa consiste “Il tocco di Piero”, quel suo senso in più, per dirla con Carella, che ha permesso a Umiliani di attraversare mezzo secolo di storia musicale italiana costantemente proiettato all’avanguardia? La risposta è contenuta nei 112 minuti dell’omonimo documentario di Massimo Martella, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà. Un omaggio appassionato – e necessario – al Maestro condotto “in assenza” di quest’ultimo, non certo a causa della sua scomparsa, avvenuta nel 2001, quanto per la pressoché totale mancanza di interviste e materiali d’archivio sull’attività del geniale jazzista fiorentino, autore di oltre 150 colonne sonore. Umiliani era personaggio schivo, riservato. Rifuggiva anche solo le foto, figurarsi le interviste o le trasmissioni celebrative. In più, mettiamoci il fatto che il detto nemo propheta in patria dalle nostre parti gode sempre di ottima salute, specie al cospetto dei personaggi più innovativi e anti-convenzionali, e si intuirà perché per ricostruire la vita di Umiliani sia stato necessario anzitutto far parlare la sua musica. Ecco allora rivivere, in forma rigorosamente live, in ossequio allo spirito jazz, i classici del suo repertorio, affidati al pianista Enrico Pieranunzi, jazzista ed ex-arrangiatore dello stesso Umiliani, che insieme a un gruppo formidabile di giovani musicisti suona il repertorio jazz, mentre l’esecuzione delle composizioni elettroniche e più sperimentali, come le colonne sonore di film di genere, è affidata ai Calibro 35, i più autorevoli esponenti della riscoperta della musica da film degli anni Settanta.
La scelta di Martella, regista tarantino dedito in passato al mondo delle fiction poliziesche, poteva rischiare di penalizzare la fluidità del racconto, ma in definitiva è proprio grazie alla verve dei musicisti coinvolti ne “Il tocco di Piero” che la musica di Umiliani finisce con l’irretire – ancora una volta – lo spettatore, unendo gli infiniti puntini che separano la sua origine e i nostri tempi attuali. Oltre ai succitati Pieranunzi e Calibro 35, una menzione speciale va riservata alle due vocalist: una sublime Simona Severini, raffinata chanteuse dalla presenza scenica magnetica, di cui da tempo si dovrebbe parlare di più, e la cantautrice Serena Altavilla, rinomata fuoriclasse del giro indie, legata a band come Mariposa e gli stessi Calibro 35, oltre che a featuring internazionali di successo (come la deliziosa “Vai” insieme al brasiliano Barro). Le loro due voci vellutate sono il veicolo perfetto per plasmare le sinuose trame lounge di Umiliani, mentre a una passionale Carlotta Proietti è affidata l’interpretazione del “Valzer della Toppa” scritto da Umiliani a quattro mani con Pasolini e diventato un classico della canzone romanesca.
L’altra intuizione cruciale de “Il tocco di Piero” è quella di sfruttare la parabola artistica di Umiliani per ripercorrere la trasformazione della musica per il cinema, del gusto musicale e della stessa società italiana, in un arco temporale che va dall’immediato dopoguerra delle prime orchestrine jazz alla riscoperta lounge da parte delle band e dei producer elettronici degli anni 90. “Di conseguenza – come ricorda Martella nelle note di regia - le ambientazioni, le evocazioni visive e i colori delle clip musicali citano epoche e luoghi di fruizione dei brani originali: dai night anni 50 al Festival di Sanremo, dal cinema dark a quello figlio del boom economico, dall’arrivo del beat e della psichedelia a cavallo del ’68, alle luci stroboscopiche delle discoteche anni 80”. Di questo emozionante viaggio verso la modernizzazione italiana, Umiliani è stato testimone attento e al tempo stesso artefice, posizionandosi con il suo tocco gentile e inconfondibile sempre un passo avanti alla contemporaneità: tra i primi a importare il jazz nel dopoguerra assorbendolo dalle orchestrine degli Alleati, primo autore di una colonna sonora italiana jazz (per “I soliti ignoti” di Mario Monicelli), quindi artefice (involontario) di un tormentone mondiale (“Mah-nà mah-nà”, affidata nel film a un divertente duetto-corteggiamento tra Massimo Wertmuller e Simona Severini), creatore di decine di colonne sonore di film di genere degli anni 60-70 e tra i primi a sperimentare la musica elettronica in Italia, acquistando anche i primi macchinari americani (Arp 2600, minimoog etc.), primo compositore “indie” (grazie alla scelta di avvalersi di un suo studio, il Sound Work Shop, con propria strumentazione ed etichetta, la Omicron), tra i più tempestivi nel comprendere l’evoluzione della musica per il cinema gettandosi nella sonorizzazione con un centinaio di dischi di library music, tuttora fonte inesauribile di campionamenti da parte di rapper internazionali, fino alla brusca interruzione dell’attività per colpa di un’emorragia cerebrale a metà degli anni 80 e alla faticosa ripresa nell’eremo solitario di Giannutri, in Toscana. Un percorso vissuto sempre in totale libertà, pagandone il prezzo in termini di popolarità e opportunità di lavoro, ma non certo di qualità musicale, se si pensa che per Umiliani hanno suonato tutti i più grandi musicisti del jazz italiano, ma anche Chet Baker, Helen Merrill, Gato Barbieri; e negli anni 90 la sua opera è stata riscoperta finanche nelle discoteche da un pubblico di giovanissimi.
Infine, c’è il racconto della sfera privata di Piero, attraverso le testimonianze della famiglia Umiliani (la moglie Stefania e le figlie Elisabetta e Alessandra, quest’ultima riuscita a divenire cantante per lui), dei ricordi di amici e collaboratori come una struggente Edda Dall’Orso, Giovanni Tommaso, Gegè Munari, Silvano Chimenti e degli interventi di storici della musica e del cinema come Vincenzo Mollica, Dario Salvatori, Pierpaolo De Sanctis e Luca Sapio. E qui alternativamente ci si commuove (con tanto di brividi sulle ultime parole pronunciate dal Maestro in punto di morte) e ci si diverte, ad esempio con la rievocazione dell’epopea del cinema erotico, che si può condensare in una battuta della moglie del regista Luigi Scattini con cui Umiliani condivise diversi progetti nei 70’s, dal cult “Svezia inferno e paradiso” all’altrettanto epico “La ragazza dalla pelle di luna”: “Quando vedi Zeudi Araya che ti corre davanti nuda sulla battigia con quei seni fermi come dei marmi, o l’accetti o ti spari!”. “Il jazz è ritmo, perché viene dall’Africa. Fa parte della nostra vita”, sosteneva Piero Umiliani. Anche se, com’è noto, “le donne odiavano il jazz e non si capisce il motivo”, e quindi persino in famiglia faceva fatica a far comprendere i suoi spartiti. “Il tocco di Piero” ce ne restituisce il flusso sincopato e improvvisato, attraverso un omaggio sincero che, al netto della difficoltà di ricostruzione storica e musicale, riesce a far emergere la forza dirompente di una creatività artistica visionaria e di una personalità gentile, ironica, che tanto prendeva sul serio il suo lavoro quanto non prendeva sul serio se stesso. Come, in fondo, dovremmo fare tutti.
Ora però la parola passa al regista de “Il tocco di Piero”, Massimo Martella, al quale abbiamo rivolto qualche domanda sul suo documentario, che dopo il passaggio nelle sale di alcune città e al Festival di Torino, dovrebbe auspicabilmente approdare in qualche piattaforma televisiva.
Martella, come è nata l’idea di questo documentario? Io sono cresciuto con la musica rock: negli anni in cui i miei amici si dicevano marxisti-leninisti, io mi dicevo “dylaniano”, avevo fondato in pratica la mia cultura politica sui testi di Bob Dylan. Poi tutte le mie prime esperienze nel mondo della comunicazione sono avvenute nelle radio private. Quindi aspiravo da tempo a fare un documentario musicale. Umiliani, in particolare, è un artista che volevo raccontare da diversi anni. Documentandomi su di lui, ho anche compreso che attraverso la sua vicenda musicale e tutti i generi tra i quali ha vagabondato si poteva anche raccontare l’evoluzione del gusto degli italiani per la musica. Poi per altre strade ho conosciuto sua figlia Elisabetta, che mi ha invitato nel 2006 a vedere un concerto di Pieranunzi che eseguiva le musiche di suo padre. E io sono rimasto allibito, scoprendo che metà dei brani li conoscevo senza sapere che fossero suoi. E mi sono anche reso conto dell’ampio spettro musicale che Umiliani ha toccato nella sua carriera. Così cominciammo a fantasticare sull’idea di questo documentario, che poi si è concretizzata molti anni dopo, quando ho lasciato il mondo della fiction per dedicarmi proprio ai documentari, iniziando un rapporto molto positivo con l’Istituto Luce, che mi ha dato la possibilità di realizzare “Il tocco di Piero”.
Come sono stati selezionati i musicisti chiamati a eseguire i brani di Umiliani? Pieranunzi era quasi una scelta obbligata, ma le due vocalist, Simona Severini e Serena Altavilla, sono state una bella intuizione… È stata una scelta dei musicisti: ho dato loro carta bianca. Dopo aver scelto insieme i brani, ho chiesto a Pieranunzi se avesse in mente una cantante per interpretarli e lui mi ha detto “Se ti fidi, te la porto io”. E si è presentato con Simona, che è stata una scoperta pazzesca: a me piace molto anche la sua presenza scenica, è una figura magnetica che ci riporta molto facilmente a quelle atmosfere. E anche per Serena è andata nello stesso modo: è stata una segnalazione dei Calibro 35, e quando l’ho sentita cantare abbiamo deciso insieme questo azzardo di fare “La ragazza dalla pelle di luna” senza accompagnamento musicale. Ho detto a Serena: “Se vieni a Roma a fare questa cosa, ti faccio incontrare Edda Dell’Orso”. E lei è andata fuori di testa completamente… è stato un incontro veramente particolare.
La testimonianza di Edda Dell’Orso è tra le più commoventi. Eh già, ma su Edda ci vorrebbe un documentario a parte. Ma non so se lei accetterebbe, visto che è una persona di una modestia insopportabile! Non crede di aver fatto nulla di particolare, tende sempre a sminuire le sue capacità, che invece erano esattamente il timbro di voce che serviva per quelle atmosfere. Non ti aspetteresti mai che una cantante che ha segnato un’epoca nel gusto musicale (non solo italiano, se si pensa che ha fan in tutto il mondo) viva a Roma in un bicamere con una pensione sociale e poco più. Lei non ha lottato come la vocalist di “The Great Gig In The Sky” (Clare Torry, ndr), che alla fine è riuscita farsi pagare i diritti su quel brano dei Pink Floyd; a Edda, invece, che pure ha tanto contribuito al successo di quei temi, non è mai andato in tasca nulla.
Ora parliamo un po’ di Piero. Esce il ritratto di un “giocherellone”, ma anche di un uomo curioso, irrequieto, senza pregiudizi, che grazie a questa mentalità è riuscito sempre a precorrere i tempi. Faccio una rapida sintesi: primo italiano a fare colonne sonore jazz (“I soliti ignoti”), antesignano inconsapevole della lounge, primo compositore “indie” con il suo Sound Work Shop, tra i primi a sperimentare con le nuove tastiere elettroniche, abile a reinventarsi con la library music, fonte di campionamenti anche per i rapper di oggi... Sì, lui è stato sempre un innovatore. Aveva anche la sua etichetta, la Omicron, per la quale faceva uscire le sue colonne sonore. Nel film ci sono 40-50 temi musicali, tra originali suonati e altri di sottofondo, e io ho pagato pochissimi diritti, perché è tutto di proprietà della famiglia Umiliani! Nessuno all’epoca si gestiva così. Però ne pagò anche il prezzo, perché si era isolato dal giro e non lo chiamavano più. In ogni caso, da solo riuscì a incidere cento dischi di sonorizzazioni: è il secondo musicista italiano più campionato al mondo dopo Ennio Morricone. E quasi esclusivamente da rapper e autori contemporanei. Nel film c’è per esempio la giovane cantautrice Joan Thiele, che sta lavorando su un progetto di campionamenti delle sue musiche.
Emerge anche il ritratto di un artista molto umile e disponibile, diverso da molti suoi colleghi. Proprio così. Ho dovuto tagliare tanti contributi, per ragioni di tempo, ma c’erano per esempio dei racconti di musicisti che ricordavano come, nelle pause, Umiliani andasse sempre con loro a mangiare un panino con la porchetta. Te lo immagini Morricone in una situazione simile? (ridiamo). Poi era il primo a stupirsi del successo che aveva presso le nuove generazioni. Quando lo chiamarono a fare il concerto al Brancaleone, lui era incredulo e raccontò alle figlie: “Improvvisamente ho capito, suonando per quei ragazzi, di aver composto qualcosa di diverso da quello che pensavo di aver fatto”. Si rendeva conto che i suoi brani si erano quasi trasformati nel tempo.
D’altronde c’era già (quasi) tutto dentro “Svezia inferno e paradiso” del 1968. È anche per te il suo vero kolossal? Sì, anche per me è tra i suoi vertici. Del resto, non è un caso che sia proprio uscito nell’anno in cui lui si mise in proprio. Non appena è stato libero di fare la sua musica, ha scritto le sue cose più belle, dal 1968 al 1972.
Era anche una stagione diversa del cinema, con il boom dei film di genere, dai poliziotteschi ai western, dagli erotici agli horror passando per lo sci-fi all'amatriciana, a cui contribuirono anche tanti eccellenti compositori italiani. Umiliani pagò forse il fatto di aver partecipato a molte produzioni ritenute all’epoca “B-movie”? È una storia curiosa, in effetti, spesso si sposavano compositori eccellenti a produzioni ritenute di serie B, anche se Piero, ad esempio, ha iniziato addirittura lavorando a un documentario dei fratelli Taviani, prima ancora de “I soliti ignoti” con Monicelli. Ma in quegli anni si faceva tantissimo cinema ed era un’opportunità enorme per i nostri compositori. Certo, per Morricone, ad esempio, legarsi a un regista come Sergio Leone è stato un vantaggio notevole (e viceversa, ovviamente). Umiliani non ha avuto la stessa fortuna, perché ad esempio Monicelli voleva musicisti diversi a ogni suo film, in base al tipo di progetto, quindi non volle legarsi a lui. Piero fu un po’ bulimico quando arrivò il successo, come lui stesso riconobbe. Non fece sempre le scelte giuste: quando entrò nel giro dei film di genere, scriveva anche 15 colonne sonore l’anno. E quindi non si è posto più di tanto il problema della qualità dei film. Non credo che abbia mai detto no a dei progetti, forse se l’avesse fatto, scegliendo magari di legarsi a un regista importante, questo avrebbe nobilitato ancora di più la sua opera.
Forse anche per questo Umiliani è stato rivalutato successivamente, perché le nuove generazioni si sono aperte di più al cinema di genere, anche sull’onda dei film di Quentin Tarantino e compagni. Sicuramente, ed è cambiato anche l’approccio della critica. Quella dell’epoca era di impronta marxista, a parte Gian Luigi Rondi e un paio d’altri, e quindi osteggiava quel tipo di cinema considerandolo più che commerciale, quasi deleterio. Nel mio piccolo, anch’io ho avuto qualche problemino…
Di che tipo? Per rievocare quelle musiche sono andato a ripescare un po’ di immagini di film dell’epoca, soprattutto quelli di Scattini, anche perché più abbordabili sul piano dei diritti. Ma il fatto che abbia utilizzato delle scene di nudo, ad esempio, ad alcuni ha dato fastidio.
Non riesco a crederci! Come si può essere così bacchettoni da non accettare la bellezza di quelle scene? Tipo quella delle svedesi nude sulla neve dopo la sauna o di Zeudy Araya che corre sul bagnasciuga… Scene cult, sì. Per fortuna c’è nel film la moglie di Scattini che sdrammatizza in proposito. Ed è divertente anche il racconto di Gegè Munari che dice che mentre suonavano per le musiche delle scene sexy, ogni tanto l’occhio andava alle attrici che gli passavano davanti: era inevitabile!
Come mai hai scelto di mettere tanta musica dal vivo nel film? È stata una scelta obbligata. Non avevo interviste di Piero di buona qualità, del resto lui non si faceva riprendere mai: non esistono nemmeno foto di lui che suona in studio! In più c’erano problemi di diritti per alcune scene di film (come “I soliti ignoti” e “Audace colpo…”). Così alla fine ho pensato di lasciar parlare la sua musica. E naturalmente doveva essere suonata dal vivo, perché in questo modo era un valore aggiunto e non si faceva torto a un musicista jazz ricorrendo al playback.
Attraverso il percorso di Umiliani si percepisce anche il clima di un’Italia diversa, quella che dal boom economico al periodo 70-80 sembrava votata alla ricerca, alla curiosità per quello che arrivava da fuori, al futuro… E oggi? Oggi seguo con difficoltà la musica degli ultimi anni. Apparentemente possiamo ascoltare tutto, ma in realtà non è così. Io ascoltavo i programmi radiofonici dei vari Giaccio, Massarini, Arbore e compagnia. Erano proposte che arrivavano quando c’era la radio o poco altro. Quando sbarcò in tv Mister Fantasy fu un evento, perché certa musica approdava in tv in una modalità nuova, moderna. Poi c’era il rapporto “fisico” con l’oggetto materiale, vinile in primis, ma anche cd. Oggi possiamo vedere e ascoltare qualsiasi cosa ovunque, ma le radio ad esempio passano quasi tutte la stessa roba, le cose più belle me le devo andare a cercare su OndaRock (ridiamo). Ma non tutti lo fanno, c’è tanta omologazione, si fa fatica a cercare in mezzo a questo flusso indistinto e continuo, credo che la difficoltà principale sia questa.
Ultima domanda: come è andato “Il tocco di Piero” nelle sale in cui è uscito? E lo vedremo anche in tv? Siamo usciti con eventi locali: a Roma è andato piuttosto bene, abbiamo fatto più di dieci giorni di proiezioni al Farnese, poi siamo usciti in altri luoghi, ma non a Firenze, la città di Piero, dove non siamo ancora riusciti a trovare una sala disponibile, speriamo di riuscirci a settembre. Io cerco di esserci sempre per presentarlo al pubblico. E poi spero che si riesca a piazzare su una piattaforma tv, anche se è un momento difficile anche per canali specializzati come Sky Arte che sarebbero stati perfetti per ospitarlo. Ma ci proveremo ancora.
Scheda tecnica
Titolo: Il tocco di Piero Genere: Documentario Anno: 2022 Regia: Massimo Martella Paese: Italia Durata: 112 minuti Distribuzione: Luce Cinecittà Sceneggiatura: Massimo Martella Fotografia: Paolo Ferrari Montaggio: Angelo Musciagna Musiche: Piero Umiliani Produzione: Luce Cinecittà