"To Bring You My Love" di PJ Harvey e "Homogenic" di Bjork: due cardini del cantautorato al femminile degli anni 90, al centro della nuova puntata di Rock in Onda, il programma condotto da Claudio Fabretti tutti i mercoledì dalle 12 alle 14 sulle web-frequenze di Radio Città Aperta (www.radiocittaperta.it).
Dal rosario blues della ex-riot girl del Dorset, giunta alla sua prova della maturità, all'abbraccio alla sua terra della chanteuse islandese, alla ricerca di una ritrovata serenità: viaggio in due album-cult degli anni Novanta.
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PJ Harvey - To Bring You My Love/ Bjork - Homogenic
Distesa nelle acque, capelli corvini, occhi chiusi, labbra scarlatte come il luccicante abito che indossa. Down by the water. Forse quella del fiume dove si è compiuto il terribile infanticidio del brano omonimo, forse quella del lavacro battesimale in cui - lungo l'intero album - cerca di mondarsi di tutti i suoi peccati. Appare così, Polly Jean Harvey, nella copertina di "To Bring You My Love". Come una moderna Ophelia di Millais, o, forse, come la reincarnazione di qualche ninfa incantatrice.
La punkette acerba e selvatica di "Dry" e "Rid Of Me" si è trasformata in una femme fatale sofisticata, posseduta da un nuovo demone: quello di un blues atipico, dagli accenti biblici e gotici. Scelta non certo casuale, visto che il blues incarna per antonomasia l'idea del dolore, della continua tensione tra colpa ed espiazione. Un blues di marca totalmente femminile, però, costruito lungo quella linea rossa-sangue che unisce idealmente Billie Holiday e Janis Joplin. Ecco allora le metafore sulla gravidanza, gli esorcismi sessuali, le allusioni più o meno esplicite a figure-archetipo come Eva (il serpente di "Long Snake Moan"), Medea (la madre assassina di "Down By The Water") o Ecate (la divinità dell'oltretomba invocata in "Teclo").
Vittima e carnefice al tempo stesso, PJ compie così la sua definitiva metamorfosi, recidendo i legami con l'adolescenza turbolenta e immergendosi in un più profondo, e non meno doloroso, percorso catartico, dritto verso l'età adulta. Paradossale per un'artista che all'epoca si definiva lost, "persa".
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È il 1997 e Björk ha ai suoi piedi buona parte dell'intellighenzia elettronica europea: Mark Bell, Goldie, Howie B, Tricky, Leila Arab, Talvin Singh. È all'apice della sua fama di diva alternativa e stravagante, ha conquistato lo status di autentica icona pop, scrive per Madonna ("Bedtime Story", cugina povera della memorabile "Violently Happy") mentre i circuiti underground, quasi senza eccezioni, pendono tutti dalle sue labbra.
Poi però il fattaccio dell'ordigno recapitatole al suo appartamento londinese, il crollo nervoso e il ritorno in quell'isola dei ghiacci, da cui pochi anni prima era scappata abbagliata dalle luci della città. "Ho dovuto frenare, dare un taglio a tutto lo schifo che mi circondava - racconta - Per questo sono tornata in Islanda e sono rimasta a vivere per un po' sulla cima di una montagna, dove tutto ciò che potevo sentire era il crepitare del ghiaccio. Era nero, le luci del Nord giravano intorno a uno strato di nuvole, con i campi di lava che sfrigolavano sotto. Era veramente techno...".
Un ritorno a casa, quindi. Più volte Björk ha parlato di "Homogenic" come del suo disco più "islandese", intenzioni che per lei non si possono tradurre di certo in una facile svolta folk o in qualche astruso riferimento all'antica poesia eddica.
Islanda significa, in primo luogo, natura incontrollabile, forze prepotenti quanto elementari, pericolo e fascino smisurato. Tutto questo emerge per la prima volta in maniera esplicita nel repertorio dell'artista che, eccitata all'idea di comporre per prima qualcosa di catalogabile come icelandic techno, dà vita a una forma-canzone nuova, che rimanda al battito e all'emotività della sua terra.
Il risultato sono le dieci tracce di questo disco, evidentemente ed esclusivamente björkiane, una dichiarazione d'indipendenza da ogni limitazione di genere in cui l'islandese fin a quel punto, un po' forzatamente, poteva essere inserita (house, trip-hop, techno, Idm eccetera).
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