PJ Harvey

To Bring You My Love

1995 (Island)
alt-rock, blues-rock, songwriter

Distesa nelle acque, capelli corvini, occhi chiusi, labbra scarlatte come il luccicante abito che indossa. Down by the water. Forse quella del fiume dove si è compiuto il terribile infanticidio del brano omonimo, forse quella del lavacro battesimale in cui – lungo l’intero album - cerca di mondarsi di tutti i suoi peccati. Appare così, Polly Jean Harvey, nella copertina di “To Bring You My Love”. Come una moderna Ophelia di Millais, o, forse, come la reincarnazione di qualche ninfa incantatrice.
La punkette acerba e selvatica di “Dry” e “Rid Of Me” si è trasformata in una femme fatale sofisticata, posseduta da un nuovo demone: quello di un blues atipico, dagli accenti biblici e gotici. Scelta non certo casuale, visto che il blues incarna per antonomasia l’idea del dolore, della continua tensione tra colpa ed espiazione. Un blues di marca totalmente femminile, però, costruito lungo quella linea rossa-sangue che unisce idealmente Billie Holiday e Janis Joplin. Ecco allora le metafore sulla gravidanza, gli esorcismi sessuali, le allusioni più o meno esplicite a figure-archetipo come Eva (il serpente di “Long Snake Moan”), Medea (la madre assassina di “Down By The Water”) o Ecate (la divinità dell’oltretomba invocata in “Teclo”).
Vittima e carnefice al tempo stesso, PJ compie così la sua definitiva metamorfosi, recidendo i legami con l’adolescenza turbolenta e immergendosi in un più profondo, e non meno doloroso, percorso catartico, dritto verso l’età adulta. Paradossale per un’artista che all’epoca si definiva lost, “persa”.

Here comes (the) Flood

Per la riuscita dell’operazione, però, serve anche una svolta musicale: ecco, allora, una ristrutturazione completa del parco musicisti, con lo scioglimento del power trio composto assieme al batterista Rob Ellis e al bassista Steve Vaughan e l’avvio di una vera carriera solista. Il deus ex machina è Flood, che dalla cabina di regia ispira un modo diverso di comporre e arrangiare. Ma a fornire un contributo decisivo sono anche il “seme cattivo” Mick Harvey e il chitarrista/compositore John Parish, con i quali la cantautrice inglese stabilirà una duratura e proficua collaborazione.
Cambia anche il suono, dunque. Il punk scarnificato e dissonante degli esordi si tramuta in un alternative rock più denso e stratificato, ma sempre aspro e vibrante, destinato a divenire uno dei trademark del decennio 90. Con un corredo strumentale più ricco - organi, vibrafoni, archi, percussioni d’ogni sorta, qualche iniezione d’elettronica - e con l’ombra minacciosa del bardo Nick Cave – suo futuro partner artistico (e non) - sempre dietro l’angolo.
Ma la vera protagonista del disco resta lei, Polly Jean, musa angelica e oscena, tanto gracile nel fisico quanto possente nelle sue interpretazioni, capaci di spaziare con disinvoltura da soffuse (ma sempre infide) ninnananne a tuonanti invettive, dai singulti dell’orgasmo ai rantoli dell’oltretomba.

L'amante del demonio

Spetta agli accordi statici di chitarra della title track il compito di aprire le danze, in un’atmosfera che non preannuncia niente di buono, come del resto le prime parole pronunciate dalla protagonista: “I was born in the desert/ I been down for years/ Jesus, come closer/ I think my time is near”. Polly Jean si presenta come un’amante misteriosa e diabolica, che ha venduto l’anima al demonio in cambio dell’amore: “Forsaken heaven/ Cursed god above/ Lay with the devil/ Bring you my love”. Versi sputati con tonalità gutturali e cavernose alla Diamanda Galas, che si chiudono in un raggelante vibrato, appeso a un’ostinata frase di chitarra e a sparuti accordi d’organo.
Non meno scabrosa è la regista di “Meet Ze Monsta” - pura ninfomania garage-blues tutta distorsioni e clangori metallici (“What a monster/ What a night/ What a lover/ What a fight”) - e la strega voodoo della sulfurea “Long Snake Moan”, con gli occhi iniettati di sangue (e di passione) nel decantare l’orgasmo del serpente (“Raise me up Lord/ Call me Lazarus... It's my voodoo working”). E altrettanto blasfema è la preghiera di “Teclo”: suspense trattenuta, eros e thanatos avvinghiati in una litania funerea in cui PJ invoca una divinità morta che la porti con sé nella tomba (“Just let me ride on your grace for a while”). La sua voce è una lama che squarcia ferite: seduce, ipnotizza e violenta con sconcertante naturalezza.
La spirale di follia culmina nell’agghiacciante murder ballad di “Down By The Water”, dove tra fin qui inedite (e riuscitissime) ambientazioni elettroniche Harvey si cala nei panni della sciagurata blue eyed whore che annega la figlia nelle acque del fiume, salvo pentirsene e bisbigliare la sinistra filastrocca finale (“Little fish, big fish, swimming in the water/ Come back here, man, gimme my daughter”). Un brano spaventosamente potente ed evocativo, con le sue pulsazioni distorte e la sua melodia maligna: fungerà anche da singolo di traino dell’album, grazie anche a un videoclip in grado di spalancare le porte di Mtv.

Rosario blues al femminile

Ma non ci sono solo orrore e depravazione tra i solchi di “To Bring You My Love”. Nel suo universale rosario blues al femminile, Polly Jean si cala anche nei panni umili e dimessi dell’operaia della funkeggiante “Working For The Man”, mossa solo dalla forza del suo amato (“Get my strength from the man above”); insegue un legame precario con la maternità nella morbosa “I Think I’m A Mother”; si ritrova ragazza-madre a pregare per il ritorno a casa dell’uomo che l’ha messa incinta (la struggente, bellissima ballata acustica di “C’mon Billy”); o ancora dà voce alla tenera amante abbandonata di “Send His Love To Me” – splendida ode folk e pietra angolare di tanti suoi dischi post-2000 - che singhiozza “This love becomes my torture/ This love, my only crime”, rivolgendosi ai propri genitori per riavere l’amore che ha perduto per sempre. Un pianto che si fa rabbia e grida straziate nella conclusiva “The Dancer”, ultima, disperata implorazione di una fanciulla gentile (testualmente), su un tappeto di hammond e chitarre spagnole, affinché torni la pace nel suo cuore “nero e vuoto” (“So long day, so long night/ Oh Lord, be near me tonight/ Is he near? Is he far ?/Bring peace to my black and empty heart”). Un finale da pelle d’oca, per un disco che in definitiva non è altro che un inno universale alla fragilità umana e alla disperata ansia di amore e redenzione.

Con “To Bring You My Love” - più di un milione di copie vendute - PJ Harvey si consacra star di rango mondiale, degna erede della genia di Patti Smith e discendenti, ma allo stesso tempo nuova musa di un rock al femminile enormemente influente: legioni di successive cantautrici dovranno farvi i conti. Ma le stesse evoluzioni future della damigella del Dorset – dalle interessanti soluzioni elettroniche di “Is This Desire?” fino al diario di guerra folk-pop di “Let England Shake” – poggeranno le basi su questa sporca decina di canzoni. Dieci sigilli rosso fuoco, per uno dei dischi più intensi, fascinosi e rappresentativi degli anni Novanta.

05/05/2019

Tracklist

  1. To Bring You My Love
  2. Meet Ze Monsta
  3. Working For The Man
  4. C'mon Billy
  5. Teclo
  6. Long Snake Moan
  7. Down By The Water
  8. I Think I'm A Mother
  9. Send His Love To Me
  10. The Dancer






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