Stefano Solventi

Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman

Autore: Stefano Solventi
Titolo: Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman
Editore: Jimenez
Pagine: 168
Prezzo: 15,00 euro

solventi_lo_sguardo_di_vic_ondarock_nunziataQuando “Il tempo delle mele”, film diretto nel 1980 da Claude Pinoteau e interpretato, tra gli altri, da una giovanissima Sophie Marceau, uscì nelle sale italiane ero troppo piccolo per andarlo a vedere. Poco male: finii per recuperarlo qualche anno dopo, incuriosito da quanto sentivo dire in giro dai miei coetanei e da quella canzone, “Reality”, cantata da Richard Sanderson, che intanto era diventata un grande successo, e che è proprio quella che accompagna la famosissima scena in cui  l’impavido Mathieu (interpretato da Alexandre Sterling), nel bel mezzo di una festa casalinga, fa indossare, prendendola di sorpresa, le cuffie di un Walkman alla sua amata Vic, estraniandola dal contesto e immergendola in una dimensione parallela.

Proprio dalla suddetta scena, prende le mosse questo agile ma tutt’altro che scontato saggio di Stefano Solventi, che getta uno sguardo sul “mondo prima e dopo il Walkman”. Concedendosi il lusso di “sovrainterpretare”, perché convinto che “i simboli siano quasi sempre inconsapevoli e, soprattutto, postumi”, Solventi lascia che la sua penna segua il sentiero indicato dallo “sguardo di Vic”, che “non vede: galleggia”, perché “affinché possa vedere, le manca un particolare di non poco conto: il futuro”. Che è quello che, ormai da anni, ci è stato negato, immersi, come siamo, in un presente senza fine e smisuratamente dilatato a suon di immagini e rimuginazioni intorno al senso del nostro passato.

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L’apparizione del Walkman, lanciato il 1 luglio 1979 dalla giapponese Sony e destinato a un inaspettato successo, trasformò l’ascoltatore da stanziale a itinerante e proprio nel momento in cui “individualismo e collettività” andavano compenetrandosi, per riformularsi a vicenda. Quell’"ascolto deterritorializzato” - come lo definì Shuhei Hosokawa, autore nel 1984 di “The Walkman Effect”, il primo vero tentativo di indagare ciò che quel lettore di musicassette aveva provocato sulla psiche dell’ascoltatore e sul significato stesso dell’ascolto – condusse l’individuo a isolarsi rispetto al mondo circostante, chiudendosi in una bolla soggettiva in cui, però, lo stesso rapporto con l’Altro andò a ridefinirsi.
Si capisce, dunque, che analizzare il fenomeno Walkman significa riandare alle origini di molto di quello che siamo ormai diventati, “profili” immersi in una “distanza sempre più densa”, quella che è “il carburante stesso dei social media”.
Parlare oggi del Walkman, sostiene Solventi, facendo leva su riflessioni e analisi anche molto colte, per quanto non sempre calibratissime, significa ricordarsi che, quando smanettiamo sul nostro smartphone, alla ricerca di questa o quella canzone tra i meandri di questo o quel servizio di streaming, non facciamo altro che “svegliare il walkman” in esso incubato, che è un discorso da mettere in correlazione con tutta una serie di fenomeni, a cominciare dalla “computazione algoritmica della nostra esistenza”, che ovviamente riguarda la nostra privacy, sempre più erosa dall’occhio di un Grande Fratello Digitale che succhia “dati” per mantenere costante la nostra “profilazione”.

Se si possa uscire o meno da questa situazione, è problema enorme, che meriterebbe ben altro spazio per essere affrontato. Stando a Solventi, “il punto non è rifiutare i benefici dell’evoluzione tecnologica, ma cercare di avere la maggiore consapevolezza possibile di ciò che significa”. Il che, a dirla tutta, è più che condivisibile, perché è da sciocchi pensare, mi permetto di suggerire, che la tecnica sia soltanto uno strumento nelle mani dell’uomo, non solo perché, nel frattempo, la stessa si è trasformata in apparato onnicomprensivo, ma soprattutto perché, fin dalla sua prima comparsa su questa terra, l’uomo è sempre stato “homo technicus”. In ogni caso, per tornare al Walkman e ai suoi “fratellini” sviluppati durante gli ultimi due decenni circa, la sfida che essi oggi ci suggeriscono è “più sfumata e fragile, ma percorribile e a suo modo potente: essere connessi e al tempo stesso imprendibili, incomputabili”.

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