Vasco Rossi

Tra Blasco e Komandante, i ricordi di un supervissuto

Ero un bambino autodidatta di Zocca che ha imparato a cantare portando le pecore al pascolo

Dieci, dieci, dieci. Tutti dieci. Cento punti su cento. Vasco come Nadia. Il supervissuto ricorda il superbambino con il sorriso che ha stregato generazioni di fan diverse tra loro: dall’Italia sanremese a quella social. “Si aggirava tra le quinte con i suoi pantaloni troppo larghi e la sua giacca troppo lunga”. E’ l’immagine che restituisce le origini di colui che rimane il rocker italiano più amato e fin troppe volte esageratamente discusso. Il docufilm di Pepsy Romanoff ("Il Supervissuto", Netflix) parte dalle origini e dall’amicizia. Dalle canzonette a Floriano Fini: perché Vasco Rossi è la rockstar "maledetta" della porta accanto.
Dannazione e lealtà. Droga e pane. Si viaggia sulle frequenze di una radio finalmente libera per approdare ai primi tentativi di accesso in una scena musicale fino a quel momento vergine di un rocker al cento per cento tale, tutto pancia, cuore e puttane. Se c’è infatti una critica che non si può muovere a Vasco Rossi, questa è proprio quella di aver mai scimmiottato qualcuno; ciò al di là dei riff e di uno stile che prende in prestito gli stilemi del rock anglosassone (e cos’altro, altrimenti?) e del cantautorato italiano, s’intende, disimpegnandoli entrambi dietro il bancone del Roxy Bar. A cominciare da Enzo Jannacci, di cui Vasco è fieramente debitore. “Ogni volta”, il suo capolavoro, il suo miracolo, la sua vetta e il suo sherpa, è appunto una di quelle canzoni uscite da una visione jannacciana della vita e della musica. La sintesi narrativa è, per chiudere il cerchio con il cantautore milanese, il dono che Vasco sa di avere. E che nelle immagini di Romanoff emerge molto accuratamente tra un ricordo, un pericolo scampato e una nuova lucidità.

A differenza di documentari che hanno la pretesa di descrivere senza mai scavare né l’uomo né il musicista, affidandosi con sciatteria a improbabili amici e “intellettuali” prezzemolini, come “Il coraggio di essere Franco”, omaggiante un Battiato che forse avrebbe maledetto ogni monaco tibetano ascoltando la voce narrante Alessandro Preziosi mentre ci prova con la prosopopea di un agente immobiliare di Roma Est (o di un’altra grande periferia italiana a vostra scelta), “Il Supervissuto” esula da ogni sbrodolamento, insomma da tutte “queste cose qui”, per dirla alla maniera di Vasco. Al centro di tutto c’è la casa dell’uomo sceso dalla collina per sfidare e poi abbracciare una città immersa nell’Emilia tondelliana dei tardi Settanta. Ci sono, e tanto, i suoi amici più veri, i fan più irriducibili, come quelli degli anni Ottanta che lo definiscono affettuosamente “un animale, una bestia”, per esaltarne l’impeto. Mentre i Salvalaggio ne fraintendono i testi, in una delle recensioni più bigotte della storia.
C’è inevitabilmente la rockstar che pensa di morire giovane. Spuntano dunque le anfetamine (e la cocaina “in lattina”). E c’è Gaetano Curreri che dice “Io faccio qualsiasi cosa, pur di restare qui con voi”: è lui l’Uccio che sistema tutto dietro le quinte. In questa prima ondata di aneddoti della vita di Vasco Rossi, riaffiora anche il non fregarsene un cazzo fin quando “nascono canzoni come Toffee”. C’è poi Celso Valli che racconta di come Mina avesse chiesto un pezzo al rocker emiliano dopo averlo visto a Sanremo.

Lui non parla perché non gliene frega niente.
Non serve che parli
(Guido Elmi)

Il Vasco tossico che scaccia via l’anfetamina, che rivuole la “radio” in “Ti taglio la gola”, una di quelle canzoni che oggi verrebbero censurate dal politicamente corretto e dall’ascia massmediatica, è il protagonista di un terzo episodio mirabolante, con la Steve Rogers Band che traina gli sfoghi di un musicista rinato ma ancora a pezzi per l’arresto. “Non sapevo manco dove avevo i soldi”, ricorda a un certo punto Vasco. Che però si scoprirà presto un professionista che ha anche il coraggio di ridimensionare il fido Guido Elmi, e addirittura abbandonare l’amata combriccola, nel frattempo montatasi un po’ troppo la testa per un successo che di lì a poco investirà classifiche e stadi. E’ a questo punto che arriva Laura. La diciassettenne che sarà poi sua moglie e che si rivelerà nel bel mezzo di tutta la storia donna seducente, forte, simpatica, agile, comprensiva, rara, capace di sorreggere negli anni sia l’uomo che il musicista. Romanoff lascia che a parlare siano i fotogrammi, i frammenti, le improvvisazioni (“Si possono dire le parolacce?”, chiede a un certo punto Laura Schmidt).
E' un amore che inizia con gli insulti, a margine del momento migliore della carriera di Vasco Rossi. Qui escono fuori anche gli scazzi privati, i contrasti con coloro che non volevano Laura intorno. “Avevo la sindrome di Yoko Ono”, racconta Vasco divertito. E ancora: “Lei era perfetta, perché mi conosceva solo come uomo”. Vasco Rossi appare spesso in una stanza, a volte suona la chitarra, e ricorda, ricorda, ricorda.

La grande trasgressione che potevo fare io alla fine degli anni 80 era quella di costruire una famiglia

La prima parte termina con un Vasco Rossi raggiante che ha finalmente trovato un suo equilibrio, perso nello studio privato immerso nella campagna, dove sono nate canzoni come “Vivere una favola”. E’ incredibile come il Vasco dei record, quello che riempie gli stadi nel 1990, il rocker energico e apparentemente ancora “maledetto”, sia anche quello appartato, lontano dal mondo, felice come una pasqua accanto a Laura e a suo figlio. Romanoff punta quindi sul dualismo lasciando che siano i protagonisti e la mole pressoché infinita di immagini rare a sottintendere i contrasti.
La foresta accoglie l’uomo che allena l’animale da palcoscenico. “Facevo la guerra sul palco, nel frattempo nasceva Luca”. Il Blasco “muore” tendenzialmente nel 1993, con l’ultimo disco pienamente riuscito della sua carriera. E con la sua “dipartita” arriverà, ahinoi, il Vasco “Komandante”, che comincerà a vivere artisticamente di rendita. Cambieranno anche i suoi fan, il “popolo di Vasco”, come lo chiamano ormai tutti. Di questa seconda fase della carriera del musicista di Zocca, risente inesorabilmente anche la pellicola di Romanoff, costretto ad arrampicarsi su Valentino Rossi, che è giocoforza simile a Vasco, anche se umanamente più predone, un "tiranno gentile", per citare il titolo di un bel libro sul campione di Tavullia dello scrittore napoletano Marco Ciriello.

Si procede così con il mito che torna a Sanremo come un condottiero romano che ha conquistato tutto ciò che si sarebbe potuto annettere all’impero. E si arriva al paziente del 2011 che si dimette da rockstar e che perde un po’ la “ragione” su Facebook, il “Vas(c)o Komunicatore” che combatte tra la vita e la morte mentre affronta “il batterio”, come lo chiama lui stesso. E’ la parte più umana di un documentario che sul finale non può non essere stucchevole o maravenieriano, per usare un aggettivo simpatico. Mettiamola così: è il prezzo da pagare quando si raccontano le parabole di un musicista allineando canzone e privato.
Certo, sarebbe stato bello sentire Vasco spiegarci i suoi brani che “meno ama”, o quello mitologico di “Ciao ma’”, il film dimenticato di Giandomenico Curi, che nel 1987 mise in scena il fenomeno Vasco Rossi come mai nessun altro. Ma la semplicità che caratterizzava la vita e l’amore dei fan paninari di quegli anni, oggi, si sa, cozzerebbe troppo con gli effetti speciali dei colossi che si accaparrano il “Komandante” e i suoi nuovi “soldati” a suon di milioni. E va bene (va bene) così.