C’è un parallelo calcistico, in “Vengo anch’io”, che per una volta non suona fuori luogo e spiega meglio di ogni parola l’unicità di Enzo Jannacci. Nel descrivere l’amico, il comico Paolo Rossi racconta di quando Ezio Vendrame, indimenticato giocatore del Vicenza e poeta del calcio, nel mezzo di un soporifero 0-0 scagliò improvvisamente una lecca (in gergo, tiro forte, ndr) verso la propria porta centrando in pieno la traversa, e nelle interviste post-partita si giustificò sostenendo che la partita era noiosa e il pubblico pagante meritava di provare qualche emozione. Un gesto apparentemente autodistruttivo ma in realtà calcolato (mirò esattamente la traversa), che ricorda da vicino quello compiuto da Jannacci durante un’edizione di “Canzonissima” e riportato dallo stesso Rossi: primo in classifica con “Vengo anch’io”, la settimana successiva decise di cantare “Quando gli zingari arrivarono al mare”, precipitando al penultimo posto. “Nemmeno ultimo, penultimo!”, commentò un po’ deluso ma con una punta di godimento perché “meglio un fiasco travolgente che un successo cordiale”.
In questo rapporto “inesistente” con il successo, fatto di quasi inconsapevoli “altissimi e bassissimi”, si colloca l’intero percorso dell’artista milanese, cui solo oggi viene riconosciuta appieno la statura di genio assoluto della canzone italiana. Addirittura “l’unico grande genio musicale della canzone che abbiamo avuto in Italia”, secondo Roberto Vecchioni, e “il più grande cantautore italiano”, a giudizio di Paolo Conte, che con lui condivise il successo di “Messico e nuvole”. Eppure per anni certa critica fece fatica a decifrarlo: forse perché autore dialettale in primis, forse perché (apparentemente) leggero, surrealista o, in definitiva, “per niente facile e così poco allineato”, per dirla con Fossati.Il merito di questa riscoperta è da attribuire anzitutto alla pervicacia del figlio Paolo, instancabile testimonial del mito jannacciano, sempre pronto a riaprire la scatola dei ricordi di famiglia, magari davanti a un pianoforte. A lui sono affidati i racconti più intimi e struggenti di "Vengo anch'io", quelli in cui traspare tutta la dolcezza e l'atipicità di un padre come Enzo Jannacci (Paolo ha collaborato attivamente al film realizzando anche una versione strumentale di "Vengo anch'io" e una di "Lettera da lontano" e ha messo a disposizione l'archivio personale).
Ma anche il cinema ha fatto la sua parte, con biografie appassionanti, com'era “Lo stradone col bagliore” di Ranuccio Sodi, trasmesso da Rai 5 qualche anno fa, e com'è ora, per l'appunto, “Vengo anch’io”, il nuovo film di Giorgio Verdelli, arrivato con successo nelle sale, dopo quelli dedicati dal regista napoletano a Paolo Conte, Mia Martini, Pino Daniele ed Eros Ramazzotti. Grazie a un sapiente uso del montaggio, è lo stesso Jannacci a farsi narratore del film, anche attraverso il recupero delle sue parole da un’intervista finora inedita, rilasciata nel 2005 allo stesso Verdelli. A bordo di un vecchio tram, si è trasportati in una Milano senza tempo che restituisce, attraverso un vasto repertorio, spesso inedito, tutti i momenti topici: le collaborazioni con l’amico fraterno Giorgio Gaber, con Dario Fo, l’incontro con Cochi e Renato, ma anche le avventure su palchi, teatri, cantine e quella vocazione di medico - chirurgo cardiovascolare, specializzatosi in Sudafrica con Christian Barnard (primo al mondo a realizzare un trapianto di cuore) - che forse gli sarebbe piaciuto seguire di più.
A contribuire invece al racconto corale, accanto al figlio Paolo e al suo piano, i retroscena di un commosso Diego Abatantuono, di Cochi Ponzoni, Massimo Boldi e Nino Frassica, oltre che di colleghi come Paolo Conte, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Paolo Rossi, Claudio Bisio, Elio, Valerio Lundini e molti altri. Last but non least, la sorprendente testimonianza di un emozionato Vasco Rossi, che mette a nudo con inusitato candore il suo immenso debito verso Jannacci, rivelando ad esempio come “Siamo solo noi”, in fondo, non fosse che il sequel a modo suo di “Quelli che” e come “Vado al massimo” volesse riprendere le suggestioni di “Messico e nuvole”, con tanto di risvolti inediti della loro amicizia, sintetizzati in un memorabile duetto tv di “Vita spericolata” (quanto sembra jannacciana anche quella!) e in una lettera di Enzo trasudante sincero affetto che il cantautore di Zocca tiene fedelmente incorniciata nel suo studio.
“L'affetto di questi artisti mi ha commosso”, ha raccontato Verdelli durante la presentazione del film alla Mostra del Cinema di Venezia, ma in fondo non è che il contraltare di quella straordinaria umanità di Enzo Jannacci che deborda nei 97 minuti della pellicola attraverso tutti i frame di questo stralunato e ipercinetico film che è stata la sua vita, perché – come racconta lui stesso in apertura - “non volevo star lì fermo ad aspettare le cose che passano accanto: guerre, dolori, serpi, codardi…”. Una vita vissuta in prima fila, ma senza mai dimenticare chi vive nelle ultime, come l’operaia Vincenzina o quel barbone di viale Forlanini che “El portava i scarp del tennis” (“del” con preposizione articolata, perché il tennis è un mondo, come spiegava lui con esilarante disamina filologica).
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Un filo di lucida follia tiene insieme l’inventario degli aneddoti. Dall’improbabile tour a Norimberga al seguito di Celentano nell’attesa vana del messia Elvis (con l’impresario che fuggì col bottino e i musicisti a spartirsi quattro fichi secchi comprati al mercato con i 20 centesimi rimasti) alle partite del Milan a San Siro con l’amico Fabio Treves, cui chiese di scrivergli il nome col pennarello su un seggiolino per occuparlo anche in seguito (sfidando le rimostranze dei tifosi visto che i posti non erano numerati!), dalle telefonate surreali con Guccini, terrorizzato perché non riusciva a capire cosa dicesse, fino all’incursione nel decennale di Zelig – successore del Derby, storico tempio del cabaret meneghino – a spiazzare tutti con la semiseria “Prete Liprando” e Bisio messo a fare il tamburo, fino a tutti i memorabili duetti con Gaber, il suo alter ego più rigoroso e metodico – esilarante il racconto di quando quest’ultimo era assorto alla ricerca del verso giusto, ed Enzo irruppe gridando: “Ho in testa questa frase: ‘la vita è un buco nero in fondo al tram’”, con l’amico che accartocciò il foglio, sconsolato, per poi sussurrare agli astanti: “Ma tanto non sa come andare avanti”.
Meno noti, invece, altri incontri ravvicinati di Jannacci, quelli da talent-scout con artisti più giovani verso i quali riversò tutta la sua generosità - oltre a Vasco Rossi, anche Ligabue, Enrico Ruggeri ed Eros Ramazzotti, del quale si produce anche in una buffa e stridula imitazione asserendo “non tutti possono essere Caruso, allora ti devi distinguere”. O ancora nobili chanteuse italiane come Milva, strepitosa nel duetto di “Per un basìn”, Dori Ghezzi, a cui è affidato anche il ricordo dell’amicizia tra Enzo e Fabrizio De André (a proposito, lo sapevate che la musica di “Via del Campo” è di Jannacci?) e Mia Martini, protagonista di una struggente “Io e te” – e peccato che nessuno abbia ripreso quella improvvisata esibizione in America negli anni 70 in cui Mimì si unì a Jannacci e al suo piano per “Vincenzina e la fabbrica” (qui ripescata invece da una trasmissione tv con Monica Vitti che quasi si commuove ascoltandola).
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Sarebbe limitativo stabilire che oggi, Jannacci, troverebbe vincoli nel politically correct. Perché Jannacci non voleva essere scorretto, sessista o sguaiato. Jannacci era sempre e semplicemente “fuori posto” - anche fisicamente, come sottolinea il regista Massimo Martelli ricordando la celebre sigla iniziale di “Canzonissima”, in cui appariva l’unico personaggio dissonante di quella panoramica di gruppo. Nessuno ha avuto – e avrà mai - l’ardore di rammaricarsi di non poter andar a fare visita all’amata appena morta all’obitorio per timore di imbrattarsi di sangue (“Non posso sporcarmi il vestito”), di usare metafore come “avere il pacco immerso dentro al secchio” per evocare il dovere di comprendere la realtà, o di rivolgere richieste sessuali come “dammi l'ebrezza dei tendini” o “spostami tutte le efelidi” (“Silvano”). Nessuno potrà mai osare tanto, forse nemmeno “Quelli che fanno un lavoro d’équipe convinti di essere assunti da un’altra ditta” (“Quelli che”).
Ecco allora il senso di quelle parole pronunciate in tram da Vecchioni, che potevano apparire eccessive, al netto del valore sopraffino del musicista-Jannacci: “Ho sempre considerato Enzo l’unico grande genio musicale della canzone che abbiamo avuto in Italia. Perché, guardate bene, gente grandissima come Guccini o De André rimane comunque su un cliché scontato, cultura e nobiltà della parola, che ha usato in modo eccelso. Invece Enzo fa ciò che non ti aspetti mai, sia nell’umorismo pirandelliano, quello dell’inaspettato, sia nel tragico. Partiva in un modo e tu non sapevi mai dove arrivava e che cosa voleva dire. Però alla fine ti rimaneva qualcosa dentro”.
Oggi è dura, senza Enzo e senza più quel mondo. Anche per la sua Milano che – come osserva il responsabile dell’ente assistenziale Casa Jannacci – “se perde quel suo avere il cuore in mano, diventa New York”. Ma se “la vita è un buco nero in fondo a un tram”, varrà sempre la pena viverla fino in fondo animati dalla sua umanità e dalla sua lucida follia.
Scheda tecnica
Titolo originale: Enzo Jannacci Vengo anch'io
Regia: Giorgio Verdelli
Cast: Roberto Vecchioni, Diego Abatantuono, Paolo Jannacci, Dalia Gaberscik, Vasco Rossi, Claudio Bisio, Massimo Boldi, Cochi Ponzoni, Elio, Dori Ghezzi, Paolo Tomelleri, Nino Frassica, Paolo Rossi, Francesco Guccini, Massimo Martelli, Gino & Michele, J-Ax, Paolo Conte, Valerio Lundini, Francesco Gabbani, Guido Harari
Sceneggiatura: Giorgio Verdelli
Fotografia: Giuseppe Talotta
Montaggio: Vitaliano Murdocco
Produttore: Silvia Fiorani, Giorgio Verdelli, Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori, Viola Prestieri, Gianfranco Romano
Produzione: Sudovest Produzioni, Indigo Film, Ala Bianca Group, Jando Music
Distribuzione: Medusa Film (Italia)
Paese: Italia
Anno: 2023
Durata: 97'