Cream

Live Cream, il ritratto dal vivo dei tre assi del rock blues

Lo scioglimento dei Cream, alla fine del 1968, lasciò un vuoto di aspettative insoddisfatte tra i numerosi fan della band inglese. Infatti, il trio (Eric Clapton: chitarra elettrica e voce; Jack Bruce: basso elettrico, armonica e voce solista; Ginger Baker: batteria) era in quel momento al culmine del proprio successo commerciale e del proprio sviluppo artistico.
Dopo avere fondato il genere rock blues nell’estate 1966, il gruppo inglese lo aveva contaminato con la psichedelia e, dal vivo, con strutture musicali aperte all’improvvisazione. Il consenso del pubblico era costantemente cresciuto, raggiungendo il suo picco proprio nei mesi dell’addio alle scene, quando gli Lp “Wheels Of Fire” e “Goodbye” arrivarono ai primi posti delle classifiche Usa e Uk.
Per questo motivo la casa discografica alla quale appartenevano decise di sfruttarne la notorietà, ancora viva nella memoria collettiva, pubblicando nell’aprile 1970 un album contenente alcune loro esibizioni dal vivo registrate due anni prima: “Live Cream”.

Il disco è composto da 5 tracce (42 minuti totali) e riuscì in buona parte nell’intento di soddisfare il mercato (quindicesimo in America e quarto in Uk). Quattro delle canzoni sono estrapolate da due imperdibili concerti tenuti nel marzo 1968 a San Francisco in due luoghi storici per la musica di fine anni 60 (al Fillmore West e al Winterland Ballroom). A quel punto della loro carriera i Cream avevano da pochi mesi compiuto la svolta stilistica che trasformò il rock blues dei loro concerti in pietre miliari della sperimentazione sonora e musicale. Infatti, nel corso dell’estate 1967, dunque sette mesi prima delle registrazioni che ascoltiamo in “Live Cream”, la band aveva dilatato significativamente le sezioni strumentali dei brani proposti sul palco traendo ispirazione dagli stilemi jazz. Come diretta conseguenza, la durata delle composizioni era aumentata considerevolmente, relegando strofe e ritornelli ai margini delle performance e privilegiando lunghe e avvincenti improvvisazioni da parte dei tre membri.

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“N.S.U.” (Bruce) e “Sweet Wine” (Baker), entrambe dal primo album della band (“Fresh Cream”, 1966), rispecchiano la tendenza appena descritta e occupano da sole quasi due terzi di “Live Cream” (dieci e quindici minuti rispettivamente).
Il gruppo lasciò così entrare l’improvvisazione estesa nel rock blues, facendosi portatore di una innovazione artistica che avrebbe avuto largo impatto sulla musica dei decenni successivi. Clapton, Bruce e Baker eseguono le sezioni strumentali centrali di questi due lunghi pezzi per mezzo di veementi improvvisazioni, concomitanti e sovrapposte tra loro, eseguite sui loro rispettivi strumenti. In questo modo, essi fuoriescono per lunghi tratti dal ritmo e dalla melodia dei due brani, avventurandosi con creativa sicurezza su territori ancora inesplorati per poi convergere in nuove e suggestive formulazioni di figure ritmico-melodiche. Nel corso di queste inebrianti e originali divagazioni strumentali, basso, chitarra e batteria si disputano l’attenzione dell’ascoltatore in pari misura, congiungendosi, con ottima capacità di ascolto reciproco, per creare una atmosfera a metà tra il free jazz e il rock blues.

Nello scorrere di questa corrente sonora, arrembante e tumultuosa, si fa strada la batteria di Baker. Essa privilegia i suoni gravi e profondi di tom tom, timpano e grancassa, legandosi al basso elettrico nel generare un ritmo al contempo incalzante e fremente. Inoltre, il batterista utilizza il suono ampio e terso del piatto crash e le fughe scampanellanti sul piatto ride allo scopo di rischiarare le prolungate improvvisazioni che caratterizzano “N.S.U.” e “Sweet Wine”.
Eric Clapton, che nel ’68 era all’apice qualitativo della propria carriera, distorce la propria chitarra per mezzo di un intenso effetto “overdrive”, il quale trasforma le onde sonore dello strumento in vibrazioni dense dai contorni frastagliati. Le note, ora impetuose e frequenti, ora posizionate con cura ad accompagnare i momenti più calmi delle composizioni, trovano in questa distorsione un veicolo perfetto per manifestare l’ispirato equilibrio tra lirismo ed energia espresso dal chitarrista. Come d’abitudine, egli evita le note particolarmente acute durante i suoi meravigliosi assoli, consentendo così al suono complessivo di risultare maggiormente unitario e coeso all’ascolto. Ciò non impedisce di percepire come Clapton unisca nelle sue escursioni soliste la sua solida formazione blues alle suggestioni imprevedibili portate ai musicisti degli anni 60 dal John Coltrane di “Giant Steps” e “My Favorite Things”.

“Sleepy Time Time” e “Rollin’ And Tumblin’” (quest’ultima una cover del classico country blues di Hambone Willie Newbern del 1929) sono rese in maniera relativamente più convenzionale. Estratte anch’esse dal primo album del gruppo, sono qui espresse dai Cream mettendo in luce due prestazioni più che ragguardevoli di Clapton alla chitarra elettrica. In particolare, è l’accompagnamento ritmico in “Rollin’ And Tumblin’” a colpire. La chitarra avvolge su sé stesse note fitte e brevi, espressive e irrequiete allo stesso tempo, tanto da mettere in secondo piano il pur coinvolgente assolo di Bruce all’armonica e il mai scontato andamento percussivo della batteria. Bruce conferma in queste tracce, come del resto anche nelle due precedenti, di essere uno dei migliori bassisti elettrici in circolazione, soprattutto nel coniugare una tecnica sorprendente alla fantasiosa immediatezza delle note. Da notare anche le parti vocali soliste del bassista, le quali appaiono come un incisivo, convincente e arioso sviluppo dello stile canoro reso celebre nel circuito blues inglese da John Mayall.
A completare il disco è una traccia di studio risalente alle session di registrazione del secondo Lp dei Cream (“Disraeli Gears”) svoltesi nel maggio 1967. Si tratta di “Lawdy Mama”, un numero country blues inciso originariamente da Buddy Moss (stile East Coast blues) nel 1934. Questo pezzo, reso in maniera sbiadita rispetto al resto del materiale che abbiamo descritto, è cantato da Clapton e ha come base strumentale ciò che si sarebbe poi evoluto nella molto più convincente “Strange Brew” di “Disraeli Gears”. Una caduta di stile che, sebbene di breve durata (meno di tre minuti), interrompe bruscamente la coerenza dell’album, ricordando da vicino l’analogo passo falso compiuto nel disco di esordio della band con “From Four Until Late”.

La presenza di “Lawdy Mama” non basta comunque a modificare l’impostazione di un album live estremamente importante, affascinante e sperimentale. Una testimonianza quanto mai vivida ed entusiasmante di come i concerti dei Cream, con le loro avventurose e inedite digressioni elettriche, siano stati punti di riferimento per almeno cinque distinti ambiti musicali. Dalla espansione delle caratteristiche strumentali del rock alla diffusione del rock blues, fino al notevole influsso esercitato su southern rock, hard rock e jazz rock.

29/01/2025