Autore: Tim Grierson
Titolo: WILCO (Il libro)
Editore: Arcana Edizioni
Pagine: 275
Prezzo: 22
Quella di Jeff Tweedy e dei Wilco è una storia profondamente americana. Una storia che per arrivare al punto in cui è arrivata ha dovuto partire da lontano e confondersi con molte altre storie, una storia tumultuosa, nata nel cuore degli anni Ottanta e capace di segnare uno spartiacque ben definito nella sconfinata galassia del rock and roll a cavallo del passaggio dal vecchio al nuovo secolo.
Ne abbiamo già sentito parlare tutti, più o meno, abbiamo saputo di Tweedy e di Jay Farrar e dei loro Uncle Tupelo, dell’amalgama di suoni e tradizioni musicali disparate con cui hanno dato forma a un genere che ancora oggi, un po’ pigramente, ci ostiniamo a chiamare alt-country, della frattura, dell’esplosione e delle loro nuove vite alla guida di due nuove band. Abbiamo sentito dei Wilco e dei Son Volt, allora, ma soprattutto dei Wilco, dei primi tempi in sordina e dei capolavori dell’età di mezzo, delle emicranie di Tweedy e del suo tilt da antidolorifici, dell’ingombrante talento di Jay Bennett e della nuova esplosione, dell’arrivo di un marziano di nome Nels Cline e dei cammelli finiti nelle copertine dei dischi.
Sì, grossomodo la conoscevamo già, questa storia. Però un libro su Tweedy e sui Wilco, beh, un libro in italiano, lo aspettavamo da parecchio. E finalmente, qualche settimana fa, questo libro è arrivato. Merito di Arcana, che ha tradotto il lungo racconto del critico musicale e cinematografico Tim Grierson “Wilco. Sunken Treasure”, uscito negli Stati Uniti l’anno scorso, con un titolo che rimanda a quello che finora è il penultimo album della band: “Wilco (Il libro)” (traduzione di Alessio Lazzati). Ebbene, è davvero il libro che volevamo.
Prima di tutto va rimarcato un dato piuttosto importante: il lavoro di Grierson si concentra sulla band, naturalmente, ma in particolar modo sull’intera parabola musicale di Tweedy. Era inevitabile, dopotutto, specie per ciò che gli Uncle Tupelo hanno significato per almeno un paio di generazioni di fan e musicisti in tutto il mondo; era quello che andava fatto e l’autore lo fa bene, dilungandosi a lungo sul complicato rapporto tra Tweedy e Farrar, che degli Uncle Tupelo era senza dubbio la primadonna, e che coi Son Volt, per un momento, avrebbe dato l’impressione di essere quello dei due capace di intraprendere la strada più convincente e fortunata. “No Depression”, l’alt-country, i dischi prodotti da Peter Buck e la popolarità prima dello scioglimento: gli Uncle Tupelo sono stati l’inizio di molte cose che stiamo ascoltando ancora oggi, e le canzoni che Tweedy scriveva e cantava per quella band, riascoltate adesso, rivelano molto di ciò che avremmo ritrovato nei dischi dei Wilco dieci o quindici anni dopo.
Ma la verità, e questo è un altro dato di fondo, è che Grierson non si sofferma troppo sull’analisi e sulla critica musicale in sé, preferendo piuttosto insistere sull’evoluzione e sulle tante incrinature della personalità di Jeff Tweedy, con particolare riferimento ai suoi rapporti con i membri più carismatici delle sue band e coi suoi collaboratori. Quindi Bennett dopo Farrar, il talentuoso polistrumentista nato nei sobborghi di Chicago che contribuì a far prendere ai Wilco la loro piega migliore e che sarebbe stato cacciato dal gruppo appena prima dell’uscita di “Yankee”, con tanto di impietosa testimonianza immortalata nel film documentario “I Am Trying To Break Your Heart” di Sam Jones. Bennett, un tipo molto difficile, che sarebbe morto in circostanze poco chiare una notte di maggio del 2009, non prima di aver citato in giudizio Tweedy per una storia di vecchi diritti non corrisposti.
E ancora i lavori fianco a fianco con Jim O’Rourke, il tesoro inedito di Woody Guthrie portato a nuovo lustro, non senza qualche incomprensione, con Billy Bragg, l’ingaggio del fenomenale batterista Glenn Kotche, l’invenzione di Cline, pescato dalla nicchia tra jazz e avanguardia in cui si era cacciato, come incredibile chitarrista rock, l’assestamento della band su un sestetto che oramai regge da dieci anni e tre dischi. Un sestetto che, pur ricco di talenti e di grosse teste pensanti che sanno perfettamente come rendere la sua musica una musica, specie dal vivo, ogni giorno migliore, resta sempre e comunque “la band di Tweedy”.
Ecco, il libro, al di là di un linguaggio un po’ farraginoso che nella sua resa in italiano forse paga l’imponente mole di ricerca e di collage fatta dall’autore, con la conseguente eterogeneità di voci richiamate e quindi di stili e di prospettive, riesce a fornirci un quadro alquanto chiaro del modo in cui i Wilco hanno meritato, affrontato e gestito lo scomodo ruolo di “migliore rock band del pianeta per quelli che se intendono” nell’ultimo paio di lustri almeno. Un libro prezioso, quindi. Se i Wilco sono la vostra band, o se solo avete a cuore la storia recente della musica alternativa, americana e non solo, non dovreste davvero farne a meno.