Cesare Basile

Istruzioni per tenere il Diavolo a bada

intervista di Magda Di Genova

Una situazione che ho sempre temuta è quella di ricevere una telefonata che recitasse più o meno così: "Magda, c'è questo artista da intervistare, ma è in città solo oggi, domani riparte. Prendi il registratore e corri." Succede con Cesare Basile. Lo chiamo per salutare e salta fuori che è in città, penso che sia una buona occasione per chiacchierare, ma ho questo cruccio. Scoppia a ridere: "Se c'è una persona che non deve prepararsi prima per parlare con me, quella sei tu." Ok, allora accendo il registratore e improvviso.

Sai cosa, Cesare? A me "Sette pietre per tenere il Diavolo a bada" piace e secondo me traspare il fatto che piaccia anche a te.

Sì, mi piace. Fare questo disco mi è piaciuto molto e mi è piaciuto anche subito dopo averlo finito. [sorride] Normalmente non è così: impiego sempre un po' a farmi piacere i miei dischi.
È un disco molto distante da "Hellequin song" e "Storia di Caino", che considero i tuoi dischi del periodo milanese. Per quanto ci sia una crescita tra uno e l'altro, li trovo in qualche modo "gemelli", hanno delle sonorità molto simili.
Non so se fosse dovuto al "periodo milanese" o solo a un mio periodo. Probabilmente pesava pensarli come dischi di un gruppo. Non lo so, però è vero: sono dischi molto simili, li lega un filo molto forte.
"Sette pietre..." ha suoni totalmente nuovi nella tua produzione.

Dal punto di vista strettamente musicale e sonoro, in questo disco non c'è assolutamente batteria.
Ah no?! E che disco ho ascoltato allora?!
Non ci fai caso all'inizio, ma non c'è. Ci sono dei tamburi, ma non sono altro che tamburi bassi, timpani e percussioni molto scure. All'ascolto non avverti la mancanza della batteria, ma senti questo suono completamente diverso perché lo spettro di frequenza che viene usato per tenere insieme tutti gli strumenti è completamente anomalo: non hai mai le frequenze alte dei piatti, per esempio.
Probabilmente è anche per questo che hai l'impressione di suoni nuovi.
Poi, in effetti è un disco che ha cercato di battere delle strade diverse, delle strade parallele a quelle che avevo frequentato.
È un disco pensato per essere più minimale rispetto agli altri, anche se c'è tanto a riempirlo.
Un'impressione forte che ho è anche quella che in qualche modo tu ti sia sbarazzato di molte cose, non solo di Milano e del concetto di "gruppo", anche il fatto che per la prima volta non ci sia un produttore esterno, che siano caduti certi suoni e gli "schemi" del formato canzone. Lo trovo un disco liberatorio, ecco.
È assolutamente un disco liberatorio. ...
Volevo fare una precisazione: io non ho mai avuto nessuna voglia di liberarmi di Milano, non mi sono mai voluto liberare di Milano e non credo di potermi liberare di Milano, perché è una città che ho amato e che continuo ad amare. Ho comunque scelto di andarmene.
Comunque sì, è la prima volta che produco un mio disco. Sono tuttora convinto che prodursi i propri dischi non ti metta nelle condizioni di distacco e lontananza necessarie e sufficienti. In questo caso è stato meglio così perché credo fossi l'unico a sapere che cosa volessi esattamente. "Sette pietre..." è probabilmente il mio disco più personale. Spiegare a qualcun altro dove volevo arrivare non era facile, soprattutto non volevo perdermi in pre-produzione.

Hai registrato in posti diversi.
Ho registrato in un periodo lungo e dove capitava perché volevo assolutamente cogliere le cose come arrivavano. Nonostante sembri un disco molto arrangiato, in realtà non lo è, è un disco molto istintivo.
Ho registrato questo disco in vari posti che sono stati la sala da pranzo, quella da letto, piuttosto che lo studio. Ho registrato dove capitava.
L'hai anche composto in questo modo?
Sì. Anche se il momento della scrittura della canzone e la sua registrazione non è stato contemporaneo. Devo "fare amicizia" con le canzoni quando le scrivo.

In "Sette pietre..." ci sono tantissimi ospiti, come succede spesso per i tuoi lavori. Eppure mi sembra che qui l'approccio dell'ospite sia stato diverso.
Diciamo che il momento in cui registrare il brano è stato dettato dal luogo, ma anche da chi c'era. In "Sette pietre..." ci sono tantissimi ospiti, ma in questo caso gli ospiti non sono venuti a trovarmi: quando eravamo insieme, in base a chi c'era, si registrava.

Con "Sette pietre..." c'è una svolta nelle sonorità e, secondo me, anche nel modo in cui scrivi le liriche.
Sicuramente è un disco più amaro e arrabbiato degli altri. Meno intimista.
È anche come mi sento. ... Mi sento... da strada, in questo momento della mia vita. Credo che questo sia un momento in cui la Nazione debba stare in strada e farsi sentire. Questa è stata la maniera per farmi sentire. Farmi sentire anche da me stesso, però volevo dire queste cose in strada da cittadino e non su un palco da musicista.
Penso che i musicisti si debbano assumere più responsabilità di quelle che si sono assunte fino a oggi, soprattutto in Italia. Spesso ci facciamo troppo i fatti nostri, pensiamo troppo al nostro ego e al nostro apparire e non ci rendiamo conto che siamo responsabili anche noi di tutta questa merda che abbiamo intorno ogni giorno di più.

Sai che ho un debole per le tue donne. Cosa mi dici de "L'impiccata"?
"L'impiccata" mi è stata suggerita dalla lettura de "L'Uomo Che Ride" di Victor Hugo. Nello specifico quando i trafficanti di bambini abbandonano il bambino prima di scappare, lui si allontana sulla spiaggia dove l'hanno abbandonato e vede questo impiccato, mezzo preso dal gelo. C'è tutta una descrizione di come la Natura si attacchi al corpo dell'impiccato. Da lì è nata questa canzone.
È una canzone rabbiosa, con l'impiccata si sbatte in faccia a questo mondo.

Cosa mi dici della Guaritrice? Un'altra donna che sbatte in faccia al mondo una certa verità.
Sì e lo fa senza saperlo! Quel testo è preso da un'intervista che Danilo Dolci fece agli inizi degli anni '60 a una guaritrice siciliana, per cui una donna del popolo, ignorante, che applicava medicina popolare alla gente che stava male. In questa intervista lei spiegava quello che erano i vermi, come quelli che vengono ai bambini nello stomaco. Raccontando quello che la medicina popolare e le credenze popolari dicono dei vermi, senza rendersene conto, aveva creato uno spaccato fortissimo del mondo in cui viviamo. Quando ho letto questa intervista, ho pensato che fosse il testo di una canzone, ho pensato che non sarei riuscito a scrivere nulla di più forte per cui non ho fatto altro che prenderla, riadattarla e farla diventare un testo da cantare.
È un brano che mi piace particolarmente perché tutti noi siamo pieni di vermi, non vogliamo ammetterlo, ma si nutrono di noi e fanno di noi quello che noi siamo.
E lei sostiene che ne abbiamo pure bisogno per cui forse nessuno è innocente.

C'è molta Sicilia in questo disco. Non solo nelle musiche, ma anche nelle parole. Due canzoni sono addirittura cantate in dialetto.
Le canzoni di questo disco mi hanno aiutato a risolvere un dolore e a riconciliarmi con la mia terra. Sono sempre scappato dalla Sicilia [dagli anni '90 a oggi, Basile ha periodicamente lasciato Catania per vivere cinque anni a Berlino, uno a Roma e sette a Milano], ho maturato un astio e anche un odio eccessivo. Scrivendo queste canzoni, ho elaborato questo dolore, mi sono riconciliato con la mia terra. Forse avrei dovuto amarla di più, ma sono ancora in tempo.

Anche il "santino" riportato nel booklet serve a riconciliarti con la Sicilia?
È il mio modo di rendere giustizia a Sant'Euplio che è il co-patrono di Catania, ma non se lo fila mai nessuno. Sant'Agata viene festeggiata da tutti e lui, che è il co-patrono, viene ignorato. [sorridendo] Ho voluto rendere giustizia a un altro poveretto, ammazzato pure lui, che nessuno considera mai.
L'ironia che mi sono concessa in questo disco è data da quell'immagine.

Cesare, sai cosa mi ha sconvolta? Aver realizzato che sono passati dieci anni da "Closet meraviglia". Mi sembra di averlo comprato ieri!
E a me sembra di averlo registrato ieri anche se purtroppo non è così!
[sorride] Non ascolto i miei dischi molto volentieri, come penso capiti a tutti, ma quando li riascolto, continuano a sorprendermi e questo mi piace. Ho riascoltato "Closet meraviglia" poco tempo fa ed è un disco che continua a sorprendermi e spiazzarmi, nonostante l'abbia scritto io. Credo che mi spiazzi più oggi di quando l'ho scritto, forse perché oggi ho più coscienza di quello che ho fatto con quel lavoro.
Ho sempre pensato che "Closet meraviglia" fosse per te l'inizio di un nuovo approccio nei confronti della canzone.
È stato sicuramente un punto d'inizio.
Lo pensi anche di "Sette pietre..."? Trovo sia l'inaugurazione di un nuovo ciclo.
In qualche modo, sto cominciando un nuovo percorso della mia vita e probabilmente c'è anche questo nel disco. Come dicevo prima, "Sette pietre..." mi ha permesso di elaborare cose che avevo dentro e dovevo risolvere. Mi auguro che sia l'inizio di un percorso nuovo anche perché questo mestiere dà l'opportunità di affrontare le situazioni in modo diverso, di farsi stimolare da cose nuove, di guardare le stesse cose in maniera trasversale rispetto a prima.
Sono stati dieci anni buoni?
Sono molto felice della mia vita artistica. Sono contento e soddisfatto. Sono decisamente meno soddisfatto degli esiti, ma gli esiti non riguardano mai le canzoni che scrivi: sono cose che non dipendono da te e non dipendono dalle tue canzoni. Se fino a qualche anno fa gli esiti mi facevano stare male, oggi non mi interessano più.

Cesare, come si fa a prendere a sassate il Diavolo? E se sbagli?
Non si prende a sassate. Le sette pietre sono una sorta di amuleto. Non prendi a sassate il Diavolo, ma puoi cercare di tenerlo a bada.


(Milano, 24.3.2011)


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Sul sentiero del Delta

Cesare Basile torna dopo tre anni con un nuovo lavoro, il sesto da solista.
Abbiamo buttato giù dal letto il cantautore catanese perché ci racconti la sua versione di questa nuova esperienza.


Cesare Basile ha cambiato casa. In quella nuova c’è lo zerbino a forma di cuore, ma sulla lavatrice non c’è più il grande mappamondo perennemente acceso.
In compenso non poteva che essere piena di gente. Un ragazzo e una ragazza armeggiano in cucina e mi domandano se voglio rimanere a pranzo. Sono quasi le 4 e dal momento che non riuscirò a fare merenda con un piatto di spaghetti, gentilmente declino. Nell’angolo ci sono Cesare Basile e Lorenzo Corti (chitarrista di Cesare, Cristina Donà, Delta V e tanti altri) che litigano con pc, videocamere, prese Usb e firewire senza venirne a capo come due esperti farebbero.
Cesare ha gli occhi ancora assonnati e sono contenta di avergli telefonato prima di uscire di casa.
Ci spostiamo in camera per essere più tranquilli. Ovviamente in giro c’è di tutto e Basile ha bisogno di qualche istante per organizzare la chiacchierata, camminando per la stanza ripetendo più volte: “Non ti preoccupare, Magda, ora ti faccio un po’ di posto”, mentre sposta chitarre, fa volare jeans e nasconde calzini.
Sulla scrivania una pila di libri e tre grandi dizionari.
Finalmente riusciamo ad accomodarci in un’atmosfera che ora sa di birra tiepida alle 3 di pomeriggio e di domenica.

Intervistare persone che conosci è sempre un casino.
Perché?
Perché se poi le domande non sono belle o va male per qualche altro oscuro motivo, sai che figura ci faccio?!
Magda... Vai a cagare!

La gente ti chiede ancora dove sono i Monti Teneri?
In effetti, l’unica persona che me l’ha chiesto è stata Carmen Consoli al concerto dei La Crus.
La gente avrà capito che non esistono. Però sarebbe bello avere i Monti Teneri!
Effettivamente “Come se fosse neve sui teneri” è un verso un po’ criptico.
È vero, sì. Volevo dare questa immagine della leggerezza, di una cosa che non ha bisogno di essere spiegata: è lì. Pensi a una persona tenera, dolce, piccola, fragile e questa neve che le cade addosso. Una sorta di albero di Natale-bonsai.

Arriviamo al presente. “Storia di Caino” è nato in un momento discograficamente difficile.
Perché ce n’è stato uno facile prima? (ridiamo)
Personalmente avrei preferito vedere la Mescal diventare una major che vederla cedere artisti e catalogo. Quindi la Mescal che liquida, il passaggio di consegne alla Urtovox...
Non ho mai avuto un solo problema con la Mescal. Anzi, li ringrazio per quello che hanno fatto.
Questo momento un po’ sospeso ha influito sulla sua stesura e sulla realizzazione del disco?
No. Questo tipo di momento non è una novità. Non credo di essere mai stato discograficamente felice. Ci sono stati momenti in cui sono stato meglio e sono stati, appunto, i momenti passati con la Mescal. Quella della discografia è sempre stata una battaglia da combattere, con le possibilità e la voglia della discografia a lavorare sulle mie cose. Ma, alla fine, non cambia niente.
Essere tornato alla piccola indipendenza mi intriga e poi credo che sia meglio stare in una struttura piccola che sia in qualche modo motivata a lavorare sulle tue cose piuttosto che finire in una major che ti concede due lire in più per fare un disco che starà nei loro depositi fino a quando non decideranno di mandarlo al macero.
Esperienza che anche tu, come altri, hai già vissuto.
Esperienza che ho vissuto, sì.

“Mi piacerebbe poter dire che questo è un album sull'assenza e vorrei non dovere spiegare questa affermazione”. Troppo facile!
No, non è facile! In generale le canzoni non dovrebbero mai essere spiegate: tu scrivi le canzoni e poi ognuno ne fa quello che vuole. E di questo sono sempre stato convinto. Cosa devo spiegare di una canzone? Come fai? Posso spiegarti l’immagine della neve sui teneri e basta, ma anche lì, se te la spiego, alla fine ti levo qualche cosa: tu la neve sui teneri la puoi prendere anche come neve sui Monti Teneri che non esistono. Va bene pure quello.
Dire che non vorresti spiegare un’affermazione che hai fatto è facile perché in qualche modo ti scarichi delle responsabilità. Alla fine non so che responsabilità ci siano a dire che questo è un album sull’assenza. È un album sull’assenza nella misura in cui mi sono accorto, dopo aver scritto le canzoni, che se c’era qualcosa che univa questi brani era proprio questo sentimento dell’assenza di qualcosa, che può essere l’assenza di un amore, come l’assenza di Dio, come l’assenza della pietà. Una mancanza di qualcosa che pensi di avere conosciuto o che ti hanno fatto credere di avere conosciuto e che ora non hai più.

“Storia di Caino” mi sembra il disco meno immediato di quelli che hai inciso finora.
Non lo so, ancora non l’ho capito...
Ho l’impressione che la voce faccia più parte della canzone, sia un elemento della musica, quindi meno “indipendente”.
Sto ancora cercando di abituarmi al volume della voce in questo album. Credo che sia l’album in cui John (Parish, il produttore, ndr) abbia osato di più rispetto al volume della voce.
Sicuramente è un album più corale. Di contro sono convinto che, rispetto ai lavori precedenti, i testi di questo album parlino molto meno a me stesso e di più agli altri. Ho cercato di non gioire delle mie parole per il semplice gioire delle parole, cosa che spesso faccio, lo ammetto. Stavolta ho cercato di raccontare di più.

Visto che abbiamo parlato di “parole”, saltiamo direttamente alle domande letterarie.
Sul tuo Myspace campeggiano alcuni dei racconti che scrivi. È più semplice pubblicarli su internet che cercare un editore?
Non mi sono preoccupato eccessivamente di trovare un editore.
L’oggetto-libro mi spaventa, per quelle pagine messe insieme, rilegate, che tocchi, leggi, lisci. Non penso di sentirmi in grado di partorirne ancora uno. Pubblico con molto più distacco i miei racconti su Myspace. Sicuramente è un modo per non impegnarsi e mi sta bene.
So di riuscire a lavorare sulle canzoni senza nessun problema: potrei difenderle contro il mondo intero. Non credo, anche se in molti pensano l’opposto, di avere la stessa padronanza rispetto allo scrivere, provo una sorta di pudore. Diciamo che sto cominciando a rompere il ghiaccio.

Trovi molta ispirazione nei libri, da Derek Raymond a Pirandello passando per Ray Bradbury fino alla Bibbia.
Aggiungerei anche le pubblicità e tutto quello che senti per strada... Credo che qualunque cosa da cui arrivi il sapore di una storia serva a scrivere una canzone.
Trovo ispirazione nei libri, nei racconti, nelle poesie. Continuo a trovarla nella Bibbia perché probabilmente è il libro dei libri: lì ci sono tutte le storie. Leggo la Bibbia senza inoltrarmi in ambito religioso e credo che sia la matrice di tutti i racconti. Non sono il primo a dirlo, lo diceva Faulkner: nella Bibbia hai il serbatoio di tutte le storie che sono da sempre state raccontate dagli esseri umani.
Il modo che hai di trattare storie tratte dalla Bibbia, però, mi sembra un po’ profano.
Dici?
Be’, Dio non ci fa una gran bella figura!
Mah, non lo so... No. Perché no? ...Il problema non è fare bella figura o meno: Dio è un personaggio in quel libro. Non credo che Dio sia lì per fare bella figura. Nel caso delle canzoni che scrivo ispirandomi a episodi della Bibbia, credo che sia un elemento come tanti altri.
In tanti se la sono presa con Dio, anche Giobbe. Forse perché anche loro sentivano l’assenza e se senti l’assenza di qualcosa in cui credi e che ami e questa cosa in qualche maniera non ti parla, o forse sei tu che non riesci a sentirla, provi una rabbia assolutamente legittima.
Anche David Maria Turoldo parlava sempre di questo Dio e poco prima di morire (credo avesse un cancro) diceva: “Eh, la resa dei conti sta arrivando.” e lui era un uomo di fede!
Credo di umanizzare le storie che scrivo prendendo spunto dalla Bibbia. Mettiamola così, le rendo terrene.

Ieri ti sei esibito in un reading dei diari di Bobby Sands. Sarà uno spettacolo che porterai in tour?
È una cosa nata assolutamente per caso e non so che fine farà. Ci (Cesare Basile: lettura de “I Diari di Bobby Sands”; Lorenzo Corti: chitarra; Christian Calcagnile: batteria; David Muldoon: lettura di “Ulisse” di James Joyce) siamo divertiti molto a farla ed è stata assolutamente improvvisata. È un tipo di lavoro che mi piace. Poi penso che, soprattutto in questo momento, leggere e raccontare “I Diari di Bobby Sands” agli altri sia importante. Sarebbe bello continuare a farlo proprio per lo spunto che le persone possono trarre dalla sua storia, al di là della situazione politica che viveva l’Irlanda in quel periodo; mi riferisco a quando Bobby Sands dice: “Nessuno è troppo giovane o troppo vecchio, nessuno è troppo grande o troppo piccolo per fare qualcosa”. Oggi dovremmo ripetercelo, perché c’è sicuramente qualcosa da fare.

Chiudiamo questa parentesi letteraria e torniamo alla musica.
Sei partito da sonorità puramente rock, sei passato per il blues oscuro, per il folk polveroso e ti avvicini sempre più al blues del Delta. Ogni tuo disco propone un suono diverso dal precedente. È snervante concentrarsi su questo tipo di risultato?
Lo sarebbe se fosse intenzionale. Se mi mettessi lì e mi dicessi: “Non voglio fare assolutamente qualcosa che ho già fatto prima”, sarebbe snervante. Sono convinto che le canzoni ti guidino, ti dicano come vogliono essere vestite. Quella del blues del Delta è, forse più che un modo di suonare, più un atteggiamento rispetto alle canzoni. Quella è veramente la cosa che mi accompagna negli ultimi anni ed è più un modo di ricercare il vestito giusto per le canzoni.

Come nei precedenti, anche questo disco ha diversi ospiti. Se però prima avevo l’impressione che fossero musicisti che fanno un salto in studio per salutare e si ritrovano con uno strumento in mano, in “Storia di Caino” ho l’impressione che siano stati musicisti contattati appositamente per suonare quella parte in quel brano.
I musicisti presenti sul disco non sono state delle presenze casuali: avevamo già deciso che avrebbero suonato ancora prima di entrare in studio.
C’è Rodrigo D'Erasmo (dei Nidi d’Arac) al violino, con il quale condivido l’amore per Nick Drake e la sua presenza mi è sembrata assolutamente naturale. Credo che proprio lui abbia dato tantissimo al suono di questo disco.
C’è Giorgia (Poli, che ha registrato le parti di basso in "Hellequin Song") che ha suonato la chitarra baritono.
Ci sono i cori femminili. C’è Vera Di Lecce (dei Nidi d’Arac), Daniela Ardito, Manuela Malfitano, Micol Martinez.
C’è Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy con il quale ho scritto un pezzo.
Non ci sono ospiti occasionali, sono persone con cui la cosa era stata decisa prima.

Come hai lavorato al brano con Robert Fisher? (con il quale Basile ha diviso il palco durante l’ultima tournée italiana del musicista statunitense)
Abbiamo lavorato via internet. Gli ho mandato la base della canzone e la prima parte del testo. Lui ha scritto la seconda parte, l’ha cantata nel suo studio e me l’ha rimandata.

I tuoi personaggi hanno sempre avuto identità molto forti. Uomini fieri e perdenti allo stesso tempo e donne doloranti e orgogliose, portatrici d’amore e notti insonni. Anche i cani sembrano avere un carattere ben determinato.
Questo è il motivo per il quale vale la pena raccontare di questi personaggi. Non mi andrebbe di raccontare di qualcuno che non abbia quantomeno un carattere ben definito.
Forse tendo a farli diventare un simbolo. Fanno parte di storie particolari attraverso le quali spero di arrivare ad altro e per fare diventare un oggetto, una persona, un cane uno strumento per guardare oltre la storia. Perché questo sia possibile, il personaggio deve avere, come dici tu, un’identità ben precisa.
Possiamo dire che nutri una sorta di passione per gli anti-eroi?
Passione... Non so se si possa chiamare “passione”. Probabilmente, come dicevo ai tempi del mio primo disco da solista citando Curzio Malaparte: “L’essere umano si riconosce nella sconfitta”. In effetti, se penso ai vincenti di oggi e all’ideologia che presentano, ho una pena e un fastidio enormi! Se l’ideologia del vincente di oggi ha i tratti somatici (perché anche quello è importante) e i colori vitali di uno come Berlusconi, mi schifo. Preferisco parlare dei perdenti o comunque degli uomini nella sconfitta.

Hai prodotto dischi per Songs for Ulan, Jains, Twig Infection e altri. Come ti viene proposto, cosa si aspettano gli artisti e come ti poni?
Credo che gli artisti si aspettino un aiuto, che è quello che domando a John quando gli chiedo di produrre i miei dischi.
Il ruolo del produttore è per me molto importante, perché è l’unica maniera che ho per guardare le mie canzoni dall’esterno. Se dovessi produrre un mio disco, avrei molte difficoltà: non sarei distaccato al punto giusto da poter decidere cosa è meglio. È poi quello che cerco di fare con gli altri: non essendo canzoni mie, credo di riuscire a mantenere un distacco che permette anche di tagliare e cucire nella maniera in cui l’autore della canzone non riesce perché è troppo attaccato alle proprie cose ed è convinto che qualunque virgola ci abbia messo sia bellissima.

Perché se dai a diversi... artisti dei "cantautori", se la prendono?
Credo che si offendano quelli della mia generazione, anche se non credo che tutti reagiscano nello stesso modo. Ora mi sto abituando, prima ero molto più reattivo. Forse perché “cantautore” non suona come “songwriter”. Mi piace molto di più pensare che sono uno che scrive canzoni. È una cosa lessicale, ma è anche una cosa legata alla mia giovinezza: penso di aver avuto un rapporto molto contraddittorio con quella che è stata l’invasione dei cantautori. Mi sembra che rappresentassero un periodo per l’Italia musicalmente abbastanza povero. A parte De André, ovviamente.

La paura è un peccato? (un verso di “Finito Questo” è “Ho un peccato di paura – Che si fa beffa di me”)
Assolutamente no, a meno che non diventi vizio. In linea di massima credo che la paura funzioni un po’ da campanello d’allarme: è bene che tu la senta.

Cos’è l’Eskimo Friends?
È un’iniziativa nata da un gruppo di italiani che vivono da tempo in Lussemburgo e che si sta impegnando per far conoscere un certo tipo di musica italiana all’estero. Hanno realizzato l’anno scorso una compilation di autori italiani proprio per divulgare lì questo tipo di realtà. Organizzano anche dei concerti al Dqliq che è uno dei locali dove siamo passati in tanti: io, Songs for Ulan, Atletico Defina, un sacco di gente.
A giugno terrai lì un reading.
Sì, anche se non so cosa andrò a leggere.
In che lingua lo terrai?
In italiano.

Trasferirti da Catania a Milano (dopo aver vissuto a Roma e tanti anni a Berlino) ti ha aiutato? Se sì, in cosa?
Non so se mi ha aiutato. È stata un’esigenza... Venire a Milano è stata una risposta dopo essermi impantanato per tanti anni a Catania ed essere tornato da Berlino. Se dovevo scegliere una città dove andare, preferivo scegliere un posto che fosse logisticamente utile.
All’inizio era una scelta logistica, oggi credo di avere imparato ad apprezzare questa città che, nonostante tutto, mi sembra che abbia degli angoli belli e importanti.

Mi racconti di nuovo come hai cominciato a suonare e di tuo nonno?
(Cesare ride, ribatto con moine)
Dai, è carino! Voglio metterlo nell’intervista!
Per me è un bel ricordo, una cosa importante.
Mio nonno faceva il barbiere e come tutti i barbieri – almeno in Sicilia, non so se in altre parti d’Italia c’era questa tradizione – suonava uno strumento, suonava il violino. Si trovava il sabato con altri barbieri, quando avevano finito di lavorare, a fare queste session dove ognuno suonava il proprio strumento.
Mi raccontava che quando c’era un altro violinista, faceva in modo che l’altro violinista non vedesse le sue mani, perché rubare era la cosa fondamentale per imparare a suonare. Quando ho cominciato a suonare la chitarra, la prima cosa che mi dissi è stata proprio quella: “Impara a rubare. Guarda come suonano gli altri, perché nessuno ti può insegnare a suonare. Devi guardare le mani e riprodurre quello che fanno gli altri”.
Però da piccolo volevi suonare la batteria! Cosa che stai facendo ora.
I miei genitori non mi hanno mai comprato la batteria per i soliti motivi: la batteria faceva un casino terribile. Allora mi comprai dei bonghetti che finii per suonare con le bacchette della batteria. Facevo un casino ancora maggiore, ma era il solo modo per ottenere il volume che volevo.
Quanti anni avevi?
Avrò avuto 13 anni... Ecco perché poi ho ripiegato sulla chitarra.

Milano, 18 marzo 2008

La foto di Cesare Basile è stata scattata da Fabio Stefanini ed utilizzata per gentile concessione.