Jean Fabry

Rotoballe

2005 (Mescal/Sciopero Records)
alt-pop

Riciclaggio linguistico nelle campagne della bassa. Modernariato malinconico. Scombussolamenti. "Sto cercando la mia vita, sto girando un po' questo mondo per la sola ma vera ragione sto cercando la mia vita, sto girando un po' questo mondo per la sola ma vera ragione sto cercando la mia vita, sto girando un pò questo mondo ...".
Prendendo spunto, e nome, da un pittoresco (e oggi scomparso) cantautore della bassa Romagna, i Jean Fabry, nati come duo direttamente in balera nel 1994, arrivano (in cinque) dopo una manciata di ottimi demo all'esordio ufficiale, e solo dieci anni più tardi, un po' come i Supreme Dicks. Se la cosa suona come certificazione di qualità la tiratina d'orecchi a discografici e critica è d'obbligo, ma non vale la pena di piangerci su.

Quella dei JeanFabry è in una parola musica pop, storta, sfuggevole, acuta ma con lampi di scemenza e sempre percorsa da quell'immaturo senso di amatorialità che la rende longeva.
Ad un primo e sbadato ascolto il disco può apparire spoglio e un po' troppo pulito, dato anche il frequente ricorso a imprescindibili del lo-fi come vecchi synth monofonici, drum machine antidiluviane e un contrabbasso sempre al limite della dissonanza. Ma la scelta dell'abbellimento, rispetto alle prime prove casalinghe e necessariamente più out e sporche, è consapevole e azzeccata nel porre in maggiore risalto la componente pop e il songwriting. Perché "Rotoballe" è anche un album che si canticchia, sotto la doccia, perché no, ma anche, e preferibilmente, a zonzo per la campagna o mentre, travolti da impeti di regressione, si riprende fuori la scatola del meccano.

Gruppo "alla deriva tra le carte topografiche, col calendario senza tutte le domeniche" i Jean Fabry partono bene col rock'n'roll disimpegnato di "Rotoballe", conteso tra tentazioni indie-rock, dissonanti squarci meditativi e fughe di synth a colorare lo sfondo. Una poetica della contaminazione tra gli elementi che se da una parte non si vergogna di gongolarsi ambiguamente sul filo della retorica del "si stava meglio quando si stava peggio", dall'altra non ha né il bisogno né tantomeno la necessità di ricorrere alle abusate immagini sensazionaliste di innesti, manipolazioni e alienazione che spopolano in tante sottoculture metropolitane. E così il cielo di polistirolo di "Punk Mentale" ha una melodia facile facile e a presa rapida, un po' come certe cose dei Pavement. "Il lamento del venditore di libri" è poi l'episodio più marcatamente riconducibile al synth-pop, sempre presente tra le pieghe del disco. La cadenza è marziale, e sottolineata da analogicherie assortite e organetto, fino alle invocazioni che chiudono il pezzo.

Si riparte poi in quarta con l'orecchiabilissima e svelta "Ma mi sa di no", tra Capossela e i Violent Femmes di "Halloweed Ground", sempre in chiave lievemente postmoderna, come cantata in una rigatteria all'ora di chiusura. Su "C.d.A" torna l'organetto a cullare la canzone più tradizionalmente "sentimentale" del disco, facile da immaginare in scenari collinari, come del resto quelli spesso frequentati dalla band dal vivo e che, tanto per non far mancare nulla, si chiude dispettosamente sui rumori di un supermarket...

In chiusura l'ermetica "I pappi dei pioppi" (obbligatorio vedere il gruppo dal vivo per capire cosa sono i pappi dei pioppi), solida melodia corale punteggiata da chitarra e organetto per poi venire trainata da un refrain di synth e drum machine, come non se ne sentivano dai tempi degli Omd, fino a un crescendo di bpm nel finale che si annulla contro un muro di suoni antichi e analogici, mentre ricompare, per i saluti, il vecchio Jean Fabry, quello vero.

Figli della provincia dove essere sfasati non è necessariamente cool , i JeanFabry continuano silenziosamente (e lucidamente) a scompigliare le carte in attesa di quello "Zavaglio Generale" che presto o tardi investirà ogni cosa.

Tracklist

  1. Rotoballe
  2. Punk mentale
  3. Lamento del venditore di libri
  4. Ma mi sa di no
  5. C.d.A.
  6. I pappi dei pioppi

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