Twang

Vengono da Birmingham, i Twang, eppure con la testa è come se non avessero mai smesso di vivere a Manchester. Il progetto musicale di questo quintetto, salito per qualche settimana agli onori delle cronache albioniche, potrebbe essere infatti agilmente riassunto in un tentativo di innesto genetico del pub-rock più classico di oasisiana memoria nelle trame vagamente ballabili di un pop intontito e disinvolto alla Happy Mondays e Stone Roses. I soliti nomi, insomma.
Una caratteristica leggermente originale di questa band potrebbe essere rintracciata nell’andamento vagamente rappato che le sue composizioni tendono ad assumere, a testimonianza dell’influenza stilistica e tematica che certe produzioni hip-hop (The Streets e Dizzee Rascal, soprattutto) cominciano a esercitare sul pop-rock d’impianto più tradizionale (si pensi anche agli Arctic Monkeys, a Jamie T, o, più recentemente, agli Hives).
Questa scelta dovrebbe trascinarsi dietro una poetica basata su una qualche forma di realismo sociale, cosa che poi effettivamente accade, ma non nelle modalità genuine in cui si vorrebbe: troppo stilizzato il suono, praticamente indistinguibili le canzoni, con melodie in levare che inevitabilmente cadono in deliquio al sopraggiungere di ritornelli telefonati, resi fin troppo barocchi da un uso smodato di cori da curva nord/sud e orchestrazioni incontinenti.

Ci si sarebbe legittimamente aspettati un rock ispido e arruffato, con il bavero del cappotto alzato e i pugni chiusi nella tasche, impregnato degli umori proletari della suburbia più frustrata e cementizia, ci si ritrova invece a maneggiare giri di chitarra fin tropo edulcorati e stilosi e ritornelli impotenti (“Rap What You Sow”) che se i Twang l’avessero venduti a quelle sciacquette inacidite dei Take That, adesso sarebbero ricchi e felici. Disco da domenica pomeriggio.   

21/11/2007