Quattro chiacchiere con Alberto Mariotti dopo lo showcase acustico alla Fnac di Milano, in cui è stato presentato il primo lavoro a nome King Of The Opera. Le risposte di Alberto mettono bene in luce cosa ha portato a mettere da parte il nome Samuel Katarro e che tipo di lavoro ci sia dietro a questa ripartenza artistica.
Se ho interpretato bene il comunicato stampa, King Of The Opera non è più un tuo monile ma è una band vera e propria, un progetto collettivo. Forse è questo il motivo principale che ha portato alla morte di Samuel Katarro.
È uno dei due motivi principali, l’altro, come avrai sentito anche da questo showcase, è che musicalmente c’è una grande differenza nell’approccio. Non solo la resa è diversa, ma lo è anche l’approccio. Samuel Katarro aveva un approccio tragico-comico-grottesco, ironico insomma, qui sono spariti molti di questi elementi ed è tutto molto più serio ed emotivamente diretto, non ci sono più i giochini e gli scherzi. Abbiamo quindi fatto un lavoro diverso dal punto di vista tecnico ma soprattutto cercando di arrivare a sensazioni diverse, non scherzando e sdrammatizzando sempre ma cercando di parlare in maniera più sincera.
Essendo, quindi, una band vera e propria, immagino che anche dal punto di vista della scrittura delle canzoni ci sia un vero e proprio lavoro collettivo. Come funziona la parte proprio di scrittura delle canzoni?
Il lavoro non è completamente collettivo, ma lo è di più rispetto al passato. I pezzi sono sempre miei, almeno dal punto di vista dell’armonia e della linea melodica, poi con gli altri abbiamo lavorato sugli arrangiamenti. Che poi è quello che avveniva anche prima, ma la differenza qui è che alcune canzoni sono state completamente sconvolte da questo lavoro sugli arrangiamenti. “Nine Legged Spider” era un pezzo chitarra e voce blueseggiante, “Pure Ash Dream” era una ballata di due minuti ed è diventata una colonna sonora horror di nove minuti, “Nothing Outstanding” stessa era una ballata folk molto cadenzata e qui non l’abbiamo detto ma l’abbiamo suonata proprio per com’era originariamente, mentre sul disco è molto caratterizzata dal piano rhodes.
Volevo anche chiederti se fossero cambiate le cose raccontate nei testi rispetto al passato, ma hai un po’ anticipato questa domanda…
La differenza principale è che qui ho voluto lavorare sul significato delle parole e non più su come suonassero. I testi di Samuel Katarro sono nati direttamente in inglese proprio perché davo molta più importanza al suono stesso delle parole, qui invece ho intanto preso spunto dal mio diario che aggiorno sempre e ho quindi scritto i testi in italiano, senza pensare a niente, ogni volta che avevo voglia di scrivere qualcosa, la scrivevo, in italiano. Poi ho cominciato a catalogare tutto e a inserire quello che avevo scritto in una forma che potesse assomigliare al testo di una canzone. Infine, ho tradotto in inglese cercando di mantenere una metrica efficace, perché la difficoltà poi è quella. Ho dovuto lavorare di calibro anche perché sono uno molto attaccato alla melodia, lo sono sempre stato, non so se si notasse…
In “The Halfduck Mystery” si notava, in “Beach Party” un po’ meno…
Sì, si notava meno, ma anche quel disco ha canzoni basate su vere e proprie linee melodiche scritte. Certo, magari erano molto elementari, però c’erano e secondo me erano anche belle. Comunque io ho bisogno di una melodia come riferimento, non so se sia un limite o un vantaggio ma ho bisogno proprio di quella cosa. Tornando al modo in cui sono nati i testi, se prima scrivevo canzoni più velocemente, ora ho fatto un lavoro più ordinato ma che mi ha anche portato via più tempo.
Una delle cose che, secondo me, si nota di più ascoltando questo disco è l’evoluzione del tuo timbro vocale. Canti in modo diverso per come sono nate le canzoni o ti è venuto in mente di cambiare stile melodico perché volevi cantare in modo diverso?
Entrambe le cose, ti direi. Io nel frattempo ho continuato a studiare canto e ho un’impostazione vocale diversa ora, più che altro canto più con la mia propria voce, e questo è comunque legato al fatto che ora parlo di me in prima persona, mentre in passato parlavo sempre di me ma nascondendomi dietro i personaggi dei testi. Ci vuole una voce più naturale per riuscire a raccontare certe cose, poi succede anche che i testi si adeguino alla musica. Ti facevo l’esempio di “Pure Ash Dream”, che era una ballata molto rarefatta e soprattutto molto romantica, quindi aveva un testo di un certo tipo, ma una volta sconvolto l’arrangiamento, come ti ho detto prima, ho dovuto riscrivere il testo da zero. È stato comunque necessario perché ci eravamo detti che quella canzone doveva rappresentare il momento in cui nel disco succede qualcosa di diverso, che è un momento che deve sempre esserci in un disco.
Quando canti non fai mai capire che sei italiano, è una cosa a cui stai attento o ti viene naturale? Purtroppo in Italia capita ancora molto spesso che si canti in inglese e la pronuncia tradisca immediatamente la nazionalità italiana…
Mi fa piacere, però penso di non avere una pronuncia davvero inglese o americana, potrebbe essere invece quella di un francese che parla inglese. Sono d’accordo che non sia una pronuncia italiana, ma nemmeno credo che mi si possa scambiare per anglosassone. È la mia pronuncia, in definitiva, e a me va bene. È anche stupido mettersi a imitare, che so, l’accento di Manchester.
Secondo te, è possibile elencare in modo preciso gli elementi di continuità con il tuo passato musicale? Quantomeno il titolo dell’ultima canzone di questo disco suona un po’ come la voglia di non dimenticarlo completamente, il passato.
Io sono contentissimo dei dischi che ho fatto precedentemente come Samuel Katarro. “The Halfduck Mystery” è un lavoro da cui ancora mi piace suonare pezzi dal vivo.
Però non c’è niente che accomuna quei pezzi a questi.
Non c’è quasi niente, è vero. Suonarli in concerto ci serve anche per sciogliere la tensione e per alleggerire l’atmosfera, eseguendoli in momenti strategici. Hanno un impatto dal vivo non dico superiore a questi nuovi, ma senz’altro diverso, comunque non rinnego niente e mi piace tutto quello che ho fatto finora.
Chi verrà a vedervi dal vivo cosa deve aspettarsi?
Stiamo testando un po’ di scalette perché ancora non abbiamo fatto concerti veri e propri da quando è uscito il disco, anche perché è uscito pochi giorni fa. Stiamo facendo solo date promozionali come questa di oggi. Il disco nuovo, comunque, vorremmo suonarlo tutto, distribuendo diversamente i pezzi a seconda di quello che possono dare in fatto di climax. Sarebbe la prima volta, non abbiamo mai suonato un disco di Samuel Katarro dal vivo nella sua interezza. Come dicevo prima, ci saranno anche alcuni brani da “The Halfduck Mystery” e uno da “Beach Party” (Alberto dice anche i titoli, ma preferisco non rovinare la sorpresa a chi andrà ai concerti).
Se ripenso al 2012 che sta per chiudersi, dal punto di vista dell’indie italiano la cosa più interessante è stato l’aumento degli artisti che hanno preso l’arte dello scrivere canzoni e l’hanno usata in modo né classicistico, né revivalista, ma in modo più moderno, più attento ai suoni legati a un ambito internazionale e soprattutto con scelte fuori dagli schemi. Penso alle svolte di gente come Black Eyed Dog, Paolo Saporiti e Alessandro Grazian. Secondo me, questo vostro disco può essere ricompreso in questo discorso. Tu sei uno che segue quello che succede in Italia e hai notato questa cosa?
Seguo, ma non in maniera maniacale e di questi che mi hai detto ho ascoltato solo il disco di Grazian, anche perché era nel roster di Trovarobato e abbiamo suonato più di una volta insieme. In realtà, penso che i nomi che passano più spesso, che arrivano a un pubblico più ampio, siano altri e fanno cose diverse da questo che dici tu. Alla fine il lavorare sul formato-canzone rendendolo un’altra cosa, cioè contamina dolo con tanti altri mondi diversi è una cosa che personalmente ho sempre fatto…
Proprio per questo ti ho fatto questa domanda, proprio perché l’hai sempre fatto e ora vedo che lo fanno più artisti rispetto a prima. Però se ho capito bene stai dicendo che se ne accorge solo chi segue tanto…
In realtà arriva un po’ di tutto, non c’è una scena definibile, in Italia come nel resto del mondo. Nell’indie italiano ci sono delle cose belle, delle cose brutte, delle cose belle ma un po’ ruffiane, delle cose brutte e ruffiane.
Foto di Ilaria Magliocchetti