Inventore dello sleep concert - evento lungo una notte in cui il pubblico sperimenta esperienze in bilico tra sonno e veglia - Robert Rich si conferma, a 41 anni dall’esordio, tra i massimi esponenti dell’ambient di sempre, parte di quella seconda ondata che si frammentò in sottocategorie ancor più estreme rispetto alle intuizioni di Brian Eno, primo geniale teorizzatore del genere.
Nonostante brani e album dilatati in durate più che generose (si pensi alle otto ore di “Perpetual-A Somnium Continuum” del 2014), il compositore californiano, classe 1963, pone il fulcro del proprio valore nel dettaglio, il mirato campionamento di un rumore ambientale, il frammento di una ritmica etnica ibridata alla space music, il superamento della new age che si affaccia su insondabili universi, tingendosi di campiture crepuscolari. Il suo valore estatico pareggia quello del britannico Lustmord, “godfather” della dark-ambient, vantando, in aggiunta, collaborazioni consegnate alla storia, come nel caso dei capolavori in coppia con Steve Roach, “Strata” (1990) e “Soma” (1992).
Dalla discografia richiana, protrattasi ai giorni nostri in decine di produzioni mediamente di alto livello, vanno gustate, per citare un titolo tra i più rarefatti, le “eco di piccole cose”, la grandezza che si fa microscopica e chiede all’ascoltatore fiducia e diligenza. Forzato lo scrigno, si schiude davanti a noi un lascito di impressionante complessità, la testimonianza di un talento che, grazie alla strenua volontà, tipica del mistico, sacrifica ogni cosa per giungere al centro del suono, là dove la percezione musicale provoca, nell’iniziato, l’esperienza del Risveglio.
Robert, esordisci nel 1982 con “Sunyata”; quali sono state le influenze meno ovvie che ti hanno portato a quella promettente opera prima?
Molte delle mie influenze erano non musicali, relative piuttosto alla psicologia, all’arte concettuale di fluxus e minimalismo, all’etnografia. Contavo che il mio esordio sarebbe stato una dichiarazione artistica che andasse oltre un semplice stile, concentrandosi sugli stati della coscienza. Al tempo suonavo una strana musica sperimentale, improvvisando con gli amici Rick Davies e John Spencer; il nostro gruppo, i Quote Unquote, aveva però una disciplina assai scarsa e uno stravagante senso dell’umorismo, e quell’avventura non rifletteva la parte più introversa della mia personalità. Così ho iniziato a creare bordoni molto lunghi e paesaggi ambient, impiegando un synth modulare e suoni preregistrati. Le influenze musicali includevano il canto e la musica rituale tibetana, Annea Lockwood, i bordoni di Maryanne Amacher in collaborazione con John Cage per “Empty Words-Close Up”, le performance per organo elettrico e loop su nastri di Terry Riley. Poi, chiaro, le influenze più ovvie sono il rock psichedelico dei tardi anni 60 e la space music dei 70 ma, a ben guardare, di quelle non c’è un’impronta evidente su “Sunyata”, che suona invece rarefatto e basico. In realtà, l’ispirazione maggiore mi arriva dall’ascolto degli uccelli, delle rane, della pioggia, degli insetti e della brezza.
Una delle tue influenze meno note è appunto la Amacher, compositrice ancora pressoché sconosciuta in Italia.
Ho adorato il suo approccio al suono, il modo in cui nuvole di bordoni colmavano lo spazio e abitavano il mondo che sta nelle nostre orecchie. Le sue composizioni erano puri fenomeni psico-acustici. L’ho incontrarla, circa 25 anni fa, a un concerto del Ccrma, il dipartimento musicale dell’università di Stanford. Lei e Naut Humon sono venuti a sedersi vicino a me, e Naut ci ha presentati. Naut è un vecchio amico della scena musicale di San Francisco, ti consiglio il suo progetto Rhythm & Noise, un artista specializzato nella tecnologia dell’audio immersivo. Abbiamo chiacchierato per un bel po’, e ho avuto la possibilità di dirle quanto fossi stato ispirato dal suo “Close Up” e dall'installazione “Sound House” che aveva allestito nel 1980 a St. Paul, in occasione del festival New Music America.
Che tipo era?
Quando ha iniziato a discutere di ciò su cui stava lavorando in quel periodo, onestamente non sono riuscito a seguire il flusso dei suoi pensieri; aveva un modo strano di usare il linguaggio. La sua mente lavorava, per così dire, su una dimensione diversa dalla nostra. Davvero uno degli artisti più insoliti e stimolanti del secolo scorso.
Restiamo al 1982: se ripensi al primo storico “sleep concert” alla Stanford University, quali immagini emergono dalla tua mente?
Si è trattato di una performance molto spartana, gratis, ed è stata la prima volta che mi sono esibito in pubblico. Scelsi come location il salone del mio dormitorio, al tempo ero una matricola diciottenne. Prima di allora mi ero esibito solo durante un’improvvisazione coi Quote Unquote, durante la trasmissione radiofonica di un’emittente locale. Promossi quella data affiggendo sulle bacheche e i chioschi del campus le fotocopie di un volantino che avevo scritto a mano. I partecipanti furono 15, metà dei quali viveva al piano superiore del dormitorio. Non ti nascondo la mia sorpresa, nel constatare che qualcuno si fosse presentato a quello strano appuntamento. Ricordo, in particolare, la difficoltà nel trascinare i synth giù dalla mia stanza, che stava al terzo piano, al salone, oltre all’impianto stereo, che usai per amplificare la musica.
Che strumenti scegliesti, per l’occasione?
Suonai il piano del dormitorio all’inizio e alla fine dell’esibizione, il mattino seguente. Poi c’era una serie di campane che avevo costruito usando pezzi di automobile e rottami metallici. Poi c’erano le registrazioni di suoni astratti, fatti con un synth che mi ero assemblato da me, e bordoni prodotti col synth Prophet-5, il quale proprio non ne voleva sapere di tenere l’intonazione. Il vero problema era come riempire otto ore di esibizione; creai un dettagliato programma suddiviso in parti da 90 minuti, riallacciandomi al fatto che dopo 90 minuti il cervello entra nella fase Rem, un programma dove erano indicati precisi stati d’animo legati a vari momenti della notte, idea mutuata dai raga della musica classica indiana.
A cosa serve uno “sleep concert”? Il sonno, è forse la conseguenza meno interessante…
Avevo l'aspirazione che gli sleep concert incoraggiassero le persone a esplorare il proprio mondo interiore in un contesto comunitario. Volevo favorire la possibilità di incubare dentro di sé esperienze oniriche come anche ipnotiche, vicine alla “trance”, creando un ambiente speciale, uno spazio acustico che fosse accogliente ma misterioso allo stesso tempo. Nelle mie intenzioni, contavo divenisse una sorta di moderno rituale sciamanico.
Quando hai compreso di aver scovato la tua personalità artistica?
Potrebbe essere stato nei primi anni 80, quando ho inciso “Oak Spirits”, un pezzo da 43 minuti in cui ho suonato col Prophet-5 un singolo accordo dissonante; si è trattato di una sovraincisione improvvisata sopra alla registrazione su musicassetta del suono di un torrente che scorreva vicino a casa dei miei nonni. Quel pezzo, in qualche modo, ha illuminato il luogo “oltre la musica” che cercavo da tempo. Era qualcosa di più simile alla meditazione, piuttosto che a una normale esecuzione musicale. Ma forse la vera scoperta è avvenuta un anno prima, quando avevo 17 anni, e ho cercato di impostare il synth in modo che producesse soluzioni, diciamo, “autonome”. Che adolescente pretenzioso, devo essere stato! Chiamai quella maniera di procedere “sintesi autodeterminata”, e in quella modalità generavo strane forme, simili ad animali marini provenienti da altri mondi. A volte lasciavo risuonare quelle combinazioni sonore per giorni, cercando di farle combinare tra loro senza il mio diretto intervento, impiegando solo processi stocastici o abbandonando alla deriva impulsi elettrici. Ancor oggi impiego alcune procedure simili per creare suoni organici che non sono di questo pianeta.
“Strata” e “Soma”, in coppia con Roach, sono indubbiamente capolavori. Cos’ha reso così efficace la collaborazione?
Intanto diciamo che io e Steve siamo, ancor oggi, buoni amici. Tra l’altro ci esibiremo insieme, a dicembre di quest’anno. Ciò detto, abbiamo personalità molto diverse, e forse è questo che rende così speciali i nostri due album insieme. Steve può essere impetuoso, come una valanga, sicché a volte scelgo un ruolo leggermente più da subordinato, se vuoi, per evidenziare le sue forti motivazioni e il suo istinto. Con lui si collabora in maniera ottimale, piacevole, rapida, lasciandosi guidare dall’intuito. Grazie a “Strata” e “Soma”, abbiamo scoperto nuove voci all’interno dei rispettivi vocabolari, toccando inedite dimensioni di quel ruolo sciamanico che la musica può indossare. A rendere speciali le registrazioni è l’eccitazione della scoperta: nel primo album si percepisce la cruda sensazione tipica dell’esplorare, nel secondo siamo giunti a un’ulteriore maturazione.
Ti soddisfa la collaborazione con Lustmord? Il vostro “Stalker” non sembra aggiungere niente ai tuoi album solisti.
Creare “Stalker” è stato un piacere. Ci ha dato soddisfazioni sia al tempo, nel 1995, che retrospettivamente. Siamo rimasti davvero sorpresi dall’impatto su un pubblico che, evidentemente, era alla ricerca di una musica immersiva e di grande intensità. Brian (Williams, ndr) e io sentivamo di aver scoperto un affascinante paesaggio comune. Quel lavoro si distingue come un’espressione unica del nostro incontro, una collaborazione in cui nessuno dei due ha creduto di essere in competizione con l’altro. E non lo vedo neanche come un album particolarmente oscuro; quello che gli riconosco è, semmai, di possedere una sorta di misteriosa energia.
Con quali musicisti ti vedi collaborare, nel futuro prossimo?
La quasi totalità delle mie collaborazioni nasce prima con un’amicizia. Non penso mai “vorrei il sound del tal musicista nel tal brano” quanto, casomai, “mi piacerebbe trascorrere del tempo con quella persona, per esplorare alcune idee insieme”. Deve iniziare perciò con un senso di amicizia, rispetto reciproco, visioni del mondo condivise e col desiderio di imparare qualcosa l’uno dall’altro. Recentemente ho avuto dei contatti con alcune persone rispetto a papabili collaborazioni: vedremo come si evolverà la faccenda. Sai, a volte posso essere un po’ un eremita, quindi dipende anche se un nuovo amico vuole venirmi a trovare, per esplorare insieme le nostre creatività.
Qual era il concetto alla base di un album ambizioso come “Somnium”?
Volevo rendere disponibile uno sleep concert che chiunque potesse fruire, da casa propria. Nel 1996 ho viaggiato per tutta l’America del Nord, tenendo oltre 24 sleep concert che venivano diffusi attraverso i canali radiofonici dei vari college; lo sforzo per restare sveglio durante quelle maratone estenuanti mi ha spinto a cercare una soluzione alternativa al live, per arrivare a quante più persone possibili. Il Dvd sembrò un supporto adeguato per contenere musica di lunghissima durata anche se poi, nei fatti, si è trattato di un’operazione irta di sfide. Anni dopo ho trovato uno sbocco migliore attraverso downloading e streaming; mi ci è voluto molto tempo per mettere insieme gli elementi necessari per far funzionare “Somnium” ma, alla fine dei Nineties, ce l’ho fatta, e ancor oggi quel lavoro gode di un’ottima fama.
Cosa ti intriga nell’architettura di Gaudì, al punto da dedicargli il notevole album omonimo del 1991?
Più che un architetto, Gaudì fu uno studioso della natura. Trovò il modo di emulare i complessi modelli matematici degli esseri viventi con tecniche assolutamente intuitive, derivandone forme organiche e altamente espressive in una maniera estranea a qualsiasi architetto occidentale che l’abbia preceduto. Basti pensare all’idea di appendere al soffitto delle corde collegate tra di loro, alle quali attaccava dei pesi proporzionali all’effetto voluto per simulare, al contrario, la forma che avrebbero avuto gli edifici; poi fotografava la risultante, capovolgeva l’immagine e da quella studiava la curvatura naturale dei vari archi, affinché questi sopportassero il peso della pietra da costruzione. Queste insolite curve “naturali” assomigliano più a tronchi d’albero che ad archi gotici. Come poteva non ispirarmi un tale approccio, sapendo che il regno della matematica sta alla base del regno organico, e che possiamo mettere in comunicazione questi due regni impiegando un salto di pensiero olistico e immaginativo? Non si tratta più di tenere divise natura e costruzione, non si tratta più di frapporre l’intuizione alla logica, parliamo finalmente di un linguaggio comune che unifica la vita e le mappe dell’esperienza.
Con quale album altrui hai scoperto l’ambient?
È un termine con cui non riesco a venire a patti, poiché per me non significa nulla. Un album però lo ricordo, uscì intorno al 1972, e si intitolava “Wind Harp-Song From The Hill”. Si tratta di due tracce di bordoni prodotti attraverso il vento che soffia in un’arpa eolica. Quando lo sentii per la prima volta (lo trovai in un cestino, doveva essere il ’76), mi sembrò di aver scoperto la musica che sentivo risuonare nella mia immaginazione. Un’esperienza molto intensa. Sono comunque stato contento quando, a metà degli anni 80, la gente ha iniziato a impiegare il termine “ambient” coniato da Brian Eno, perché distingueva la musica che stavo facendo dalla new age, la quale aveva connotazioni religiose che mi erano estranee. Il problema sorge quando associ la parola a un ascolto “di sottofondo”. In seguito “ambient” è stato usato anche dal popolo della dance per descrivere certa musica suonata nelle chill room, ma a me sembra, più che altro, roba lounge. Io mi muovo in territori diversi, ipnotici, ma non ho mai trovato un termine adatto per quello che faccio. Al che ho provato a diffondere il termine inventato da Pauline Oliveros “deep listening”, che almeno fornisce all’ascoltatore coordinate precise su come vivere al meglio l’esperienza sonora.
Allora, cos’è ambient, per te?
Se intendi il genere musicale, beh, non ho una mia idea a riguardo. Ribadisco: tecnicamente l’ambient viene considerato un sottofondo, e io aspiro all'idea che la mia musica possa essere qualcosa di più che un espediente per dare tono a una stanza. Mi preme creare esperienze coinvolgenti, psicoattive ed energizzanti. Quando l’onesta espressione artistica di qualcuno sembra assomigliare a una determinata categoria definita da altri, ricordiamo che tale somiglianza deriva prevalentemente da artefatti generazionali e culturali, da un dato contesto, da categorie derivate da esperienze precedenti. Nella vacuità, nulla esiste, per come intendiamo il concetto di esistenza. E, perciò, dovremo evitare di imprigionare le creazioni del singolo in categorie disseccanti. Forse la mia musica suona introversa e quieta perché tendo a essere ipersensibile nei confronti degli stimoli esterni. Vivo una specie di sinestesia tattile e anche il suono può colpirmi, a livello epidermico. Un suono aggressivo può restituirmi sensazioni fisiche dolorose. Ed ecco perché produco musica che porta a sentirsi bene quando la ascolti: voglio generare un circolo virtuoso in me e negli altri.
Quale credi sia l’intento del sottogenere dark-ambient? Certamente non quello di destare uno stato di quiete nell’ascoltatore.
Non penso molto nei termini di uno stile oscuro (“dark”) o brillante, anche se, suppongo, iniziare il processo di catarsi creativa con uno stile bene in mente potrebbe essere di stimolo per alcuni. Affinché un’opera esprima una qualche forma di bellezza, essa deve contenere i ricordi delle tante sfaccettature dell’esistenza e, dunque, nascita e morte, gioia e timore, meraviglia e paura, come anche quei sentimenti estatici che non trovano collocazione nel linguaggio verbale. Perché ogni volta che ci beiamo alla luce del giorno, vediamo anche ombre. Senza contrasti, tutto si uniforma nel grigio. E poi, guarda, potrei nominarti certa cosiddetta “musica da meditazione” che mi fa venir voglia di stracciarmi le orecchie, così come certo death metal grindcore, che mi fa solo ridere.
Impieghi ancora una strumentazione analogica?
Per le registrazioni no, ho abbandonato il nastro poiché sono abbastanza soddisfatto della registrazione digitale a 24 bit. A metà anni 90 avevo già venduto i miei registratori analogici a bobine. Quanto agli strumenti musicali analogici, beh, quelli, quando il brano lo richiede, li uso, eccome. In “Neurogenesis”, pubblicato tre anni fa, c’è un generoso impiego del synth analogico modulare. C’è da dire anche che gli strumenti non sono tutto, la differenza la fa sempre la musica. Vero è che gravito maggiormente attorno a strumenti acustici, i quali permettono un collegamento emotivo diretto con l’inconscio, specialmente quando hanno una palette timbrica che richiama la voce umana. Gli strumenti elettronici hanno un ruolo più materico, adatto alla costituzione di texture. Sovente impiego il synth modulare a mo’ di “sandbox”, divertendomi a sperimentarci su. Comunque le timbriche elettroniche (incluse quelle analogiche) sono chiaramente parte del mio linguaggio.
Quali caratteristiche deve possedere un nuovo brano, affinché tu scelga di pubblicarlo?
Dipende dall’album. Spesso costruisco gli album come un’unica entità, su una lunga linea temporale dove ogni sezione è parte di questa grande storia. Uso criteri sempre diversi per decidere se qualcosa funziona o meno. In primis, deve essere qualcosa che vorrei ascoltare, che mi piace, che mi fa venire i brividi lungo la schiena o evoca in me un senso di meraviglia. Mi sforzo di pensare più come ascoltatore che come compositore.
Il ruolo del rumore nella tua estetica?
“Rumore” è solo un insieme di riferimento, una parola che si usa comunemente quando qualcosa non ha una tonalità ben precisa. Ecco, la musica offre una casa a ogni suono che abbia una sua ragione d’essere.
Quando il rumore cessa di essere artisticamente interessante?
Personalmente, quando non ho voglia di ascoltarlo. O quando è a volumi eccessivi. Ma lo stesso discorso lo puoi applicare anche a musiche armonicamente e melodicamente piacevoli. Il rumore dipende dalle orecchie di chi ascolta.
Come comporre ambient organica in maniera efficace? Certuni si limitano a sovraincidere suoni di ruscelli e venticelli…
Bisogna imparare ad ascoltare, e comprendere e rispettare le modalità in cui i suoni coesistono e si relazionano gli uni con gli altri.
Qual è la scelta musicale più estrema da te compiuta?
Forse comporre, vent’anni fa, “Open Window”, un album per pianoforte solo. Temevo a pubblicarlo, perché qualcuno lo avrebbe potuto percepire come un cliché trito e ritrito. Ma, tutto sommato, è un buon lavoro, più simile a certe cose di Terry Riley e Gurdjieff che alle esecuzioni di George Winston. È stato un bell’azzardo. O forse il fatto di aver stabilito di essere anche il mio stesso manager, autista e roadie, nei tour per l’America del Nord. O forse la cosa più estrema è stata quando, in Marocco, ho indossato una maschera da wrestler messicano e mi sono esibito in un concerto di death metal insieme a un gruppo di motociclisti eroinomani.
Pardon?
No dai, quest’ultima l’ho inventata. In realtà la maggior parte delle mie scelte non sono affatto estreme.
Cos’avresti fatto diversamente?
Rimpianti? E chi non ne ha? Forse, nel mio caso, non rifarei “Eye Catching”, l’album d’esordio del progetto Amoeba. Potessi cambiare il passato, non so cosa aggiusterei. Non è così semplice cambiare sé stessi, anche perché la mia arte riflette proprio ciò che ho esperito, così come la mia ricerca di un significato. Cambierei volentieri la parte introversa del mio carattere. Mi piacerebbe anche sapermi valorizzare meglio. Sai, detesto il lavoro di auto-promozione. Alla fine mi preme solo che le persone scoprano il mio lavoro e siano incuriosite ad approfondirne l’ascolto. Sto facendo musica come se mi giungesse da un luogo “altro”, un luogo dal quale provengono dei sussurri. E, davvero, non so cosa potrei fare di meglio, musicalmente.
Se la tua musa si allontana, che fai?
Quando la musica sembra distante, esploro la pittura, la poesia, le installazioni, o qualsiasi altra cosa accenda la mia curiosità. Sono profondamente grato per tutto questo. Non riesco a immaginare una vita migliore.
I sistemi educativi occidentali pongono ancora estrema enfasi sull’importanza di “usare la testa”; sembra che non ci sia alternativa alla conoscenza della realtà, se non tramite il ragionamento.
Non è una questione di “o questo o quello”, tipo “intelletto” contro “emozione”. Si tratta piuttosto di integrare e incorporare le esperienze della vita con la curiosità tipica dell’intelletto, si tratta di comprendere il ruolo che l’ambiente ha su di noi e di come noi modifichiamo l’ambiente. Parlo di capire il nostro essere mortali, metabolizzare concetti quali estetica, umiltà, equilibrio. Ci penso spesso.
E a cosa ti hanno condotto, le tue riflessioni?
Ad esempio, il mio album “The Biode” è nato da domande riguardanti il sé e la mente, la coscienza, la sensibilità. Va considerato anche che dovremmo diventare più consapevoli della probabile sensibilità di altri organismi e dei sistemi complessi che ci circondano. Questa idea potrebbe essere vista come completamente intellettuale, ma deriva dall’osservazione che la mente si estende oltre la “testa” e anche oltre le percezioni del sistema nervoso, arrivando alle complesse interazioni di ogni forma di energia con la vita che ci circonda. “Usare la testa” potrebbe significare così l’uso di tutti gli strati di esperienza, per pervenire a un nuovo tipo di consapevolezza. La sfida sarebbe, dunque, riuscire a integrare i molti livelli di consapevolezza cosciente che ci abitano.
Allo stato delle cose, ti consideri una persona serena?
Probabilmente essere sereno non fa parte della mia natura.
Come ti descrivi?
Piuttosto irrequieto. La maggior parte dei miei amici mi definirebbe un po’ nerd e certamente incline a pensare troppo. Sono anche molto autocritico, forse soffro un po’ della così detta Sindrome dell’Impostore. Inoltre, fatico a trovare l’ispirazione per i progetti futuri; però una volta che arriva l’intuizione, riesco a dedicarmi anima e corpo al lavoro per lunghi periodi di tempo, sperimentando un’esplosione di creatività. Ma poi torno a essere pigro e, di conseguenza, a rimproverarmi. Quando tento di meditare, infine, non mi riesce di restare fermo; preferisco camminare per ore, forse quella è la mia forma di meditazione ideale. Come vedi, questi non sono i comportamenti di una persona serena.
Attualità: la politica estera del presidente Biden?
Cerco di evitare discorsi sulla politica. Cerco di preservare il pacifista che alberga in me, anche se, a volte, comprendo che il silenzio può fare di noi dei complici. Come artista, mi interrelaziono con persone da ogni parte del mondo, anche quando i loro governi compiono scelte sbagliate, come nel caso di quello statunitense. È il caso di ricordare che le azioni degli individui non sono le azioni dei loro governanti.
Anche da un punto di vista musicale, da molti decenni l’Europa cede all’impulso dell’americanizzazione. Perché?
È ciò che sta accadendo? Spero di no. Di per contro, molte persone negli States vogliono europeizzarsi, perché ammirano il vostro stile di vita. Forse si tratta di un fenomeno legato al fatto che amiamo l’arte creata in un posto distante dal nostro, credendola più meritevole. L’erba del vicino, ammettiamolo, è sempre più verde. Ormai viviamo in un mondo globalizzato, non solo in Europa e America del Nord, ma dappertutto. Anche da un profilo del potere mass-mediatico, ormai tutto si è uniformato, da noi come in Giappone o in Cina, non deteniamo più un qualche monopolio sull’informazione ma sta tutto nelle mani di alcune entità multinazionali. E noi, artisti non-mainstream, abbiamo il dovere di creare un’opposizione diversificata al mainstream, irrobustendo un dialogo senza sosta direttamente tra artista e pubblico che condivida la stessa visione della realtà; solo così possiamo mantenere viva un’alternativa. Quindi non si tratta di “Usa contro Europa” ma, semmai, “mainstream contro indipendenti”, in qualunque luogo. Dobbiamo creare con onestà un’arte che rappresenti le varie culture e i diversi modi di intendere il mondo, un’arte che rappresenti il nostro luogo nativo ma che apprezzi anche quella di culture diverse, condividendo i linguaggi locali in contrasto alla cultura globalizzata imperante di questa rumorosa modernità. Sono per un mix di localismo ed esterofilia. Va creato, anche per le arti, un presidio di tutela, simile a quello di Slow Food.
Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Essere vivi e, magicamente, scoprire modi per sopravvivere esprimendo la bellezza di essere vivi. Chiunque sia al mondo in questo momento può essere un artista, semplicemente prestando attenzione, anche se, va detto, bisogna lavorare sodo su sé stessi, per esistere veramente. Molti grandi artisti si tengono stretti un mestiere sicuro per pagare l’affitto, ma non per questo smettono di rispondere al richiamo dell’arte. Alcuni di noi, invece, sono semplicemente fortunati, non più talentuosi, e la loro carriera consiste nel fare ciò che amano. Ci giurerei: in questo momento ci sono milioni di persone che stanno creando cose meravigliose, ma noi semplicemente non le vediamo, perché il mondo è così vasto…
(19/11/2023)