Fausto Rossi

Fausto Rossi

L'elogio della non-paura

C'era una volta la new wave italiana: deliri iconoclasti, parodie del potere, sperimentazioni elettroniche, frenesie di chiara matrice londinese, mutuate dallo sdegno sputato in faccia ai regnanti. In quegli 80 "underground", Fausto Rossi, in arte Faust'O, diede vita a un peculiare filone, che rielaborava estetica glam e correnti wave. Tra riflessioni sul suicidio, sarcasmo e tormenti d'ascendenza "dark"

di Mimma Schirosi

Il 1977 è topos fondamentale nella storia del rock, il calderone post-punk si gonfia a dismisura, con (fuori)uscite di tutto rispetto: i Talking Heads pubblicano "77", nevrotico punk-funk, i Suicide trasudano angosce metropolitane nell'omonimo esordio, David Bowie aderisce al non scritto manifesto new wave con la produzione dei due album facenti parte della trilogia berlinese: "Low" e "Heroes", in seguito completata da "Lodger".
Il 1978 è terreno di sperimentazione, previa assimilazione, dei molti input ricevuti. E l'Italia non si esime dal lasciarsi coinvolgere dall'onda: sulla scorta di atteggiamenti iconoclasti, parodie del potere, sperimentazioni elettroniche, frenesie di chiara matrice londinese, mutuate dallo sdegno sputato in faccia ai regnanti, la canzone d'autore tradizionale resta ai margini, cedendo il passo all'irruzione di nuove, estreme figure, politicamente scorrette e scandalose: Donatella Rettore, Alberto Camerini, Ivan Cattaneo, esponenti di un'estetica assolutamente ridondante che si attualizza in commistioni di punk-ska-reggae; contestualmente, prendono forma le sperimentazioni colte di Franco Battiato, la new wave minimale dei Krisma, il rock non sense degli Skiantos.

Nel fermento generale, inizia a circolare nel circuito underground un 33 giri dalla copertina quasi clone di "Heroes", in cui, alla mimica kempiana di Bowie, si sostituisce una posa meno teatrale e più intimista, nella quale l'artista guarda diritto negli occhi il potenziale acquirente/ascoltatore. Lo stile è di chiara matrice glam, confermata dall'occhio bistrato e dalle labbra glossate, già messaggeri di dichiarata ambiguità e gioco del sé. L'album è intitolato Suicidio e lui si chiama Faust'o, pseudonimo di Fausto Rossi e ulteriore indizio di complessità.
Personaggio borderline, dissacrante, indignato e ribelle ai limiti della vera e propria strafottenza, il friulano inizierà a lanciare delle sfide quasi kamikaze all'intero sistema, turbando la mentalità comune, procedendo sicuro verso un Mondo/Gigante ignorante e ottuso, colpendo in maniera irreversibile e formativa pochi, ma sensibili ascoltatori.
Il biglietto da visita è apparentemente minaccioso, ma l'argomento/title track viene trattato con gran dote di disincanto e sdrammatizzazione, con atteggiamento orgogliosamente misantropico ("sento tutto quello che mi gira intorno è noia, noia, noia. Anche il terremoto adesso mi dà solo noia, noia, noia. Ah! Suicidio! Tornare ancora laggiù!").
La demolizione di falsi miti, prosegue in "Godi", sorta di derisione del perbenismo cattolico in materia sessuale, su un pianoforte burlesco. La rivalsa sul microcosmo familiar-borghese è sciorinata con sarcasmo in "Piccolo Lord", dall'incipit straziato e lento, di lì a poco squarciato dall'incalzare agitato della batteria e dalla distorsione della chitarra, in un'alternanza ignara di ogni rigore stilistico.
Lo stesso aschematismo in "Il mio sesso", ironia surreale sul proprio organo genitale, tra divertissment glam e aperture wave, la cui sfaccettata identità è narrata nel falsetto di "C'è un posto caldo". In chiusura, l'insolente sfida lanciata a tutto il sistema di "Benvenuti tra i rifiuti", dal sapore pre-dark in alcuni riverberi alla Cure.

Il secondo atto è Poco zucchero, pubblicato nel 1979, pregno di grottesche atmosfere alla Devo ("Cosa rimane") e inquiete ascese synth ad alzare il sipario su tormenti sentimentali ("In tua assenza" e "Il lungo addio"); i toni si fanno apocalittici e dimessi, su un tappeto di stratificazioni dilatate di batteria, effetti e chitarre catatoniche, lasciando che il sax divenga il protagonista della lunga chiusura ("Funerale a Praga").

Dopo un'apertura spoken word, in J'accuse… amore mio, conclusione della trilogia e apertura della nuova decade anni 80, Faust'o prosegue il percorso wave attingendo non esclusivamente alla lingua italiana ("Piccole anime"), delirando alla David Byrne di "Fear Of Music" ("Disaster" e "Michael Michael (You're bloody drunk)"), facendo dell'autoironia per rivolgersi alla fantomatica amata Valentina ("Non mi pettino mai"). J'accuse è l'album con cui l'artista si propone senza alcun pudore a un pubblico sicuramente non all'altezza della situazione, storicamente abituato a ben altro e lungi dall'immaginare l'imminente provocazione: sul palco del Festivalbar canta in playback "Hotel Plaza", vicina a certo dandismo Roxy Music, seduto su un pianoforte masticando una mela… verrà letteralmente "cestinato", ma resteranno tracce di mirabile e decadente surrealismo nelle liriche ("Hotel Plaza, amo i tuoi fiori come nevrastenie").

Lo step successivo è un album sorprendentemente strumentale. Out Now, del 1982, è claustrofobia allo stato puro, un disco metallico, cupo, battito accelerato di un incubo che perdura ("Orange"), bowiani passaggi in sotterranei berlinesi ("Grey Sand And Wave"), estemporanei e caleidoscopici tziganismi dall'effetto "girandola impazzita" ("A Cup Of Tea"), dilatazioni ambient a contenere sussurrati flussi di coscienza ("The Sound Of My Walls"), chiacchiericcio di fiati, a chiudere ("Amedeo's").

Il momentaneo silenzio sembra aver concesso la giusta dose di introspezione, così da individuare le future tematiche e sistemarle con piglio essenziale e maturo nel successivo Faust'o, distante dai collerici e folli esordi, disco dalla scrittura netta, ugualmente sconcertante, ma più elegante e apparentemente posata. L'album è quanto mai biografico, testimonianza di un'anima in conflitto perenne, avvolta in una forma di nichilismo ben espressa dal costante ricorrere al fuoco quale metafora di un solitario sé che guarda da lontano un mondo da cui prende le debite distanze ("Ogni fuoco", "Stracci alle fiamme", "Ultimi fuochi"). Gli ammonimenti accorati cercano di mettere in guardia l'Amore dal pericolo/realtà, con declamare alla Battiato su chitarre distorte ("E poi non voltarti mai"); ma l'amore pare non recepire, continuando a fare/farsi del male, perso in una spirale di agghiacciante sadomasochismo ("Jeraldine"). Verso la fine, gli episodi più visionari e decadenti: la ballata dolente con soluzione utopica suggerita nel ritornello di "Alien" ("Alien, alien… alien is a chance, a chance that's falling, falling over and again") e l'apertura/nenia mongola, anticipatrice delle esperienze dei CSI post-Oriente anni 90, di "Rip Van Winkle".

A chiudere con un quinquennio d'anticipo gli anni 80 è l'album Love Story, interamente in lingua inglese. Malgrado il titolo sentimental-cinematografico, la scrittura e il sound hanno ben poco di sciropposo ed eticamente corretto, l'amore descritto da Faust'o è l'ennesima inquietudine - stavolta quasi celebrazione - dei Joy Division degli episodi più dilatati, come sembra suggerire il titolo della traccia d'apertura "Exhibition Of Love", immediatamente seguita dall'interagire netto e asciutto di basso e batteria in "Two Walls"; la voce compie incursioni in un'ecatombe nevralgica di anime stanche d'annaspare verso la possibile risalita, da un lato un cantato maschile cupo come non mai, dall'altro un soprano che sfarfalla nervosamente e aristocraticamente ("Overtones"). La chiusura ("Big Beat") si apre al mondo, ma solo per guardarlo con distacco e restar chiusa nelle proprie introspezioni, come una sorta di paradossale incentivo al cinismo e alla misantropia, marchi di coerenza indossati con coraggio e costanza.

Quasi come propedeutica catarsi finalizzata ad accettare una società in accelerata evoluzione, senza lasciarsene scalfire, maturando, invece, uno spirito critico progressivamente distaccato e ancor pulsante, l'artista dedica ben sette anni allo studio di tecnomusicologia e musica antica, pervenendo nel 1992, alla produzione di Cambiano le cose, disco che volta definitivamente pagina alle provocazioni del "personaggio Faust'o", restituendoci un'identità chiamata Fausto Rossi, più meditabonda e concentrata sulla melodia, piuttosto che sulla volontà di stupire. L'album trasuda sonorità lievi e autunnali, vicine a certa ricerca sakamotiana ("In tuo ricordo"); la lirica si fa malinconica e struggente, apertura di un sé smarrito e confuso sulla decisione da prendere, se "gettarsi" a vivere o restar chiusi nel guscio fragile di ogni ferita (la bellissima "Tentazione di esistere", che recita "potrei svanire, e poi tornare, e poi svanire e poi tornare… guardare ogni tanto la luna"); il percorso autobiografico viene ripreso in "Per il mio compleanno", intersecarsi di linee impercettibili, per levità, e improvvisi tocchi, con un risultato teso e ipnotico; morbidi echi world music nella pre-chiusura, cantata con languore new romantic e intrisa di rimpianto ("Morbide macchine").

Pur smussandone certe asperità, L'erba, del 1995, costruito su un impianto più tradizionalmente rock, è ogni tanto visitato da rapidi passaggi etno e tocchi elettronici, ad amplificarne il pathos; è album duro, impavida anamnesi di strutture sociali ipocrite e falsamente bigotte, nelle quali ci si sente stretti eppur si resiste, ora celebrando la forza salvifica di pozioni stupefacenti (la title track "santa l'erba che apre dolcemente il cuore"), ora elencando i vari oggetti di repulsione per poi relegarli al gaudio di una "massa" idolatrante ("la scienza, il progresso, la nuova nobiltà"); il calvario sentimentale, di cui l'artista lascia tracce in ogni album, inizia con "Perché il mio amore", dolente interrogarsi sulla caducità, dal continuo e invadente fiato sul collo di ogni amante e prosegue, con andatura dimessa e ritmica dilatata in "Chiudi gli occhi (la vita è un sogno)", lettera crudamente viscerale all'Amore passato, scritta da un Io quasi scisso dalla propria dimensione corporea, svuotato dall'assenza dell'antico contatto con la carne dell'Altro. In chiusura, l'essenziale omaggio a John Cale cantato con bowiano piglio glam ("Close Watch (John Cale").

La pacificazione con i propri surplus d'energia sembra una chimera, un fine con il quale la natura stessa di Fausto può concedergli esclusivamente un rapporto di amore/odio; il live del 1996 Lost And Found testimonia ancora di uno spirito coerentemente tormentato, ma non stanco di dichiarare la personale visione del mondo e della sua paradossale umanità. Questo attraverso undici demo-track che, oltre a rivisitare pezzi storici quali "Ogni fuoco", "Jeraldine", "E poi non voltarti mai" e "Alien", paiono una definitiva dichiarazione d'appartenenza all'ambiguità del grembo glam, alla raffinata decadenza wave, all'uso della voce quale filo di flessibile metallo nervoso, languori tutti magnificati dalla presenza di un sax virilmente corteggiante.

L'ultimo atto di un'inquietudine all'oggi vivida e indossata con disinvoltura, è Exit, sorta di celebrazione depressa del ventennale di Suicidio. Le esplosioni rincarate dal furore incosciente della giovinezza, si sciolgono nell'amarezza di un'identità consapevole dell'inesistenza di un reale e definitivo punto d'arrivo, come racconta in "Ora che ho visto". La voce si fa lamento ecatombale, debolezza post-delusione, denuncia di un'alienazione tentata a gettar le armi, nella ballata rock della title track, ("fuori, fuori dal sogno per lasciare ogni cosa che non si può avere, niente pensieri assoluti e niente paura di essere e vivere"); la desolazione dello spirito ferito dall'allucinante avvicendarsi degli accadimenti apre la biascicata narrazione di "Sotto la pioggia al mattino", assimilabile, per chitarra e cantato a tratti stanco, a certi futuri episodi di Giorgio Canali solista. Dopo i 14 minuti di pura e spietata sociologia delle masse di "Blues" ("ma come posso distinguerli se hanno un'unica espressione? …milioni di uomini tutti insieme sono un unico animale grasso e squilibrato con pelle di alluminio senza muscoli né ossa, solo l'osso del cuore"), la chiusura/ninna nanna per adulti vittime/carnefici di se stessi e Don Chisciotte di un mondo mai accettato sino in fondo ("Gli occhi si chiudono").

Fausto Rossi, attraverso i live, continua a vomitare con orgoglio ciniche verità, personali devastazioni, arguti paradossi, totale strafottenza, in assoluta coerenza all'antico patto stretto col tormento e nel rispetto fedele del prematuro matrimonio con l'alienazione. Questo di fronte a un pubblico di reduci del delirio wave 80, rimasti imbrigliati in maglie generazionali nutrite dello stesso tormento, e neofiti in cerca di cruda e coraggiosa profondità, dispersa e oscurata dalla luce artificiale di tanta imitazione.

Fausto Rossi

Discografia

Suicidio (CGD, 1978)

8

Poco zucchero (Ascolto, 1979)

7

J'accuse… amore mio (Ascolto, 1980)

7,5

Out Now (FG, 1982)

6,5

Faust'o (Ricordi, 1983)

8,5

Love Story (Target, 1985)

7

Cambiano le cose (Target, 1992)

6,5

L'erba (Target, 1995)

7

Lost And Found (Target, 1996)

6

Exit (Target, 1997)

7

Becoming Visible (Interbeat, 2009)
Below The Line (Interbeat, 2010)
Pietra miliare
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