06-10/07/2007

Lou Reed

T. Arcimboldi / S. Cecilia, Milano, Roma


BERLINO-MILANO, TUTTO IN UNA NOTTE

di Gabriele Benzing

“Potrete raccontare ai vostri figli di avere visto Berlin di Lou Reed”: se c’è una cosa che non è mai mancata a Mr. Reed, di certo è l’ego. E l’idea di portare per la prima volta in tour, ad oltre trent’anni dalla pubblicazione, l’esecuzione integrale di “Berlin”, con tanto di accompagnamento di un coro di bambini e di una sezione di archi e fiati, suona come un progetto ad alto rischio di autocelebrazione. Non a caso, ad accogliere Lou Reed nella moderna cornice architettonica del Teatro degli Arcimboldi c’è il più classico distillato dell’intellighenzia milanese: professionisti ultraquarantenni in giacca e cravatta con il libro dei testi di Lou Reed appena acquistato, teenager “alternativi” di stretta osservanza velvettiana, dame ingioiellate in cerca della versione ripulita ed intellettuale del lato selvaggio della strada… Nel foyer c’è persino un entusiasta rappresentante che cerca di vendermi una carta di credito American Express: wow, allora è questo il rock ‘n’ roll!
Quando si apre il sipario di onde in tempesta che nasconde il palcoscenico, l’apparizione di una dozzina di ragazzini in tunica azzurra modello “Sister Act” e di un gruppo di musicisti in completo azzurro da varietà del sabato sera acuisce ancora di più il timore di una bieca caduta nel kitsch.
Ma è solo un istante, perché non appena le note del tema di “Sad Song”, che fanno da ouverture al concerto, si librano sulla platea, ogni dubbio svanisce come per incanto, lasciando spazio soltanto al racconto della discesa agli inferi di Caroline e Jim.

Ed eccoci allora catapultati in un caffè di Berlino, a pochi passi dal Muro, ad assistere ancora una volta all’ultimo compleanno di Caroline, mentre il pianoforte di Rupert Christie evoca fumose atmosfere da cabaret. La voce di Lou Reed è un cupo e teatrale spoken-word, in cui è la parte del narratore a prevalere su quella del cantante. Sullo sfondo, le immagini girate da Lola Schnabel, con Emmanuelle Seigner nella parte di Caroline, vengono proiettate su una sorta di paravento cinese, come ombre sfocate di fantasmi.
Una maestosa “Lady Day” segna l’ingresso della band al gran completo, e i brani del “primo atto” di “Berlin” si vestono di un’imponente enfasi, fatta di suoni scintillanti e di insistiti crescendo. Le voci bianche del New London Children’s Choir e la vocalist Katie Krykant, avvolta in uno scarlatto abito da sera, sembrano voler prolungare il chorus all’infinito, mentre Steve Hunter (sì, proprio quello di “Rock ‘n’ Roll Animal” e del “Berlin” originale…) infiamma le corde della propria chitarra senza mai togliere il cappellino di lana che si ostina a tenere calcato sulla testa.
Reed, dal canto suo, non ha più la duttilità vocale del 1973, ma recita ogni verso con una tenebrosa ed avvincente profondità. La messa in scena di “Berlin” – diretta dall’artista e filmaker americano Julian Schnabel e prodotta da Bob Ezrin e Hal Willner – riesce così a trovare un sottile equilibrio tra gli eccessi della rock opera ed i chiaroscuri di un album crudo e affascinante.

“Caroline Says I” cavalca un lirismo operistico che la conduce fino allo stridente assolo finale di Reed, “How Do You Think It Feels” sfodera un poderoso vigore rock, sostenuto dalla batteria di Tony “Thunder” Smith. Ma è in “Oh, Jim” che il concerto trova il suo momento più trascinante, con un basso martellante ed una frastagliata elettricità che sembrano sbucare direttamente dalle tracce di “New York”. Lanciando uno sguardo di sfida al pubblico, Reed si avventura in un’improvvisa impennata chitarristica che esalta immediatamente la platea: l’ex Velvet rompe gli schemi della rappresentazione, si ferma, trascina il pubblico a scandire il ritmo, poi lascia il centro della scena ai vocalizzi soul di Katie Krykant, che nonostante qualche incertezza si guadagna un applauso a scena aperta. La coda finale del brano rallenta inattesa, sprofonda nell’antro della voce di Lou, si immerge nel silenzio assoluto della sala: cala l’oscurità sul torbido amore di Caroline e Jim, come un ago avvelenato che affonda nelle vene.

Con la sporca disperazione di una tragedia greca scritta da Hubert Selby jr., “Berlin” si ammanta di un crudele senso di fatalità nell’introduzione per pianoforte e chitarra di “Caroline Says II”. L’algida regina che tutti chiamano “Alaska” fissa come in uno specchio la spirale di egoismo e violenza che l’ha ormai imprigionata. “You ought to learn more about yourself, think more than just I”, declama Reed calandosi nella parte della protagonista del dramma: “life is meant to be more than this”, invoca. Alle sue spalle, intanto, scorrono immagini di montagne innevate, come un impossibile sogno di fuga.
La registrazione del pianto dei bambini strappati alle braccia della madre che conclude “The Kids” diventa uno strazio assordante ed insensato. E in “The Bed”, Reed conduce il pubblico in un sinistro viaggio attraverso i luoghi dove il destino di Caroline si è ormai consumato, descrivendo la scena del suicidio con la raggelante indifferenza delle sue smorfie rugose. “I never would have started if I’d known that it will end this way, but funny thing I’m not at all sad that it stopped this way”. Una gelida ineluttabilità che viene sottolineata dai riverberi su cui riecheggia la voce di Reed alla fine dei versi, anche se il canto spettrale del coro non riesce ad eguagliare l’inquietante angoscia del finale del brano nella sua versione su disco.

L’epilogo orchestrale di “Sad Song” è l’unica conclusione degna di un’opera tesa e drammatica come “Berlin”. Peccato che Reed accetti di tornare in scena per un pugno di bis che rompono completamente l’incanto: il senso della misura conservato sino a quel momento viene dimenticato del tutto ed il rocker americano si mette sardonico a trasformare le vecchie hit in una pantomima di lustrini, cedendo di volta in volta il microfono agli altri componenti della band. “Sweet Jane” (con la leggendaria introduzione di Hunter appena accennata) viene affidata ai gorgheggi di Katie Krykant, “Satellite Of Love” al vibrato del bassista Fernando Saunders (con cui Reed inscena un imbarazzante siparietto comico), mentre in “Walk On The Wild Side” viene riservato ai bambini del coro uno stucchevole “doo do doo do doo do do doo” finale… Il pubblico si assiepa sotto il palco, godendosi il liberatorio tributo che tutti aspettavano. Quel vecchio marpione di Lou, come sempre, sorride sotto i baffi.

(10/07/2007)

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JIM E CAROLINE A S. CECILIA

di Mauro Vecchio 

Alienato poeta dei bassifondi, nel 1969 Lou Reed canta: "Tra pensiero ed espressione ci sta un’intera vita".
Vita disagiata, quella dell’ex-Velvet Underground, piena di rabbia e disperazione, che non riesce ancora a trovare uno sfogo definitivo, una catarsi creativa. A volte, tuttavia, un’intera esistenza può durare anche un solo anno. Nel 1972, Lou diventa, con l’aiuto fondamentale di David Bowie, la nuova, viziosa drag-queen del rock decadente. Le atmosfere agrodolci e teatrali tipiche del glam pervadono "Transformer", odissea sonora della trasgressione che lo lancia nell’olimpo delle star per le masse già innamorate dell’alieno polveredistelle. Eppure, il vero Lou Reed è un grande depresso oltre che un’artista complesso e incurante di regole e schemi.
Passa soltanto un anno e, in barba alle nuove proposte scintillanti di Bowie, l’uomo di New York getta alle ortiche ogni tentazione commerciale, creando "Berlin", opera rock nichilista, gonfia di spettri malati. Il disco inizia, così, un viaggio nello smarrimento dei sensi e dell’anima di due amanti tossici, Jim e Caroline, che vivono una storia viziosa come un film di Visconti.
E’ la psiche sull’orlo del collasso dello stesso Lou Reed che viene rappresentata tra scoppi di rock metropolitano, orchestrazioni ricche di pathos e dilanianti melodie mitteleuropee à-la Kurt Weill. "Dovevo fare Berlin o sarei impazzito": tra l’espressione swingante di "Walk On The Wild Side" e il pensiero disilluso di "Berlin" ci sta davvero un’intera vita.

Il Pensiero

Quando "Berlin" viene pubblicato, nel 1973, provoca un vero e proprio shock sia per i fan che per la critica che si aspettavano un altro disco in odore di glam dopo il successo di "Transformer". Le atmosfere cupe e disperate lasciano di stucco decine di giornalisti che non comprendono le profondità malate di Reed. "Berlin" rimane, così, un album odiato, circondato da un alone di negatività, quasi una maledizione. Ed è lo stesso Lou che, all’Howard Stein Academy of Music di New York, seppellisce in parte quelle atmosfere sotto una coltre di riff hard-rock in pelle nera.
Solo svariati anni dopo iniziano a circolare pubbliche lettere di scuse, ma, ormai, Reed, a catarsi conclusa, ha rinunciato a portare il disco in tour.

Oggi, trentaquattro anni dopo, "Berlin" è ampiamente considerato come uno dei capolavori del musicista americano. Condizione sufficiente per trasformare un vecchio sogno-incubo in realtà. Mentre un’afosa sala S. Cecilia aspetta "l’evento", le note distorte di "Like a Possum" scorrono insistenti, avvolgenti.
Non è un caso che i 18 minuti sabbatici del brano facciano parte dell’ultimo disco rilevante di Lou Reed, "Ecstasy", uscito, ormai, sette anni fa.
Tra greatest hits più o meno utili, l’animale del rock and roll è sempre più vicino a meditazioni e discipline orientali che alle distorsioni schizoidi di "Metal Machine Music".
Ecco, allora, la grande scommessa: un sessantacinquenne compassato che si incarna nuovamente nel fantasma di se stesso giovane, disperato, drogato.

Quando inizia la seconda parte, scarnificata e intima, di "Oh, Jim", Lou Reed si ritrova a cantare più a se stesso che alla platea romana. Nel suo recitato un senso di rivalsa tardiva, ma, allo stesso tempo, di riflessione interiore sulla fine di un cammino personale.
Non sarebbe certo impazzito se non avesse messo in piedi questa magniloquente rappresentazione teatral-musicale, ma, quando "Sad Song" si estende tra assoli di chitarra, fiati, archi e cori piangenti, la sensazione è che la scommessa, in fondo, è stata vinta. Dopo tutto, non era facile rendere dal vivo le complesse trame musicali di "Berlin". Un pezzetto della Metropolitan Orchestra di Londra riesce, però, a far rivivere l’incedere sincopato di "Lady Day" così come il New London Children’s Choir insegue lo spettro gotico di "The Bed". Merito della produzione accurata degli storici Bob Ezrin e Hal Willner e, soprattutto, del film diretto da Lola Schnabel, dove Caroline prende le sembianze di Emmanuelle Seigner.

Le immagini in bianco e nero sono il completamento naturale per il piano straziante di Rupert Christie che apre il concerto sull’ossuto conto da uno a tre della title track. Il resto è rock, tagliente, vibrante sulla batteria elefantiaca di Tony Smith e, soprattutto, coinvolgente sull’eccelso Steve Hunter che, a volte, sovrasta tutti gli altri come nel finale di "Men of Good Fortune" o nel delirio di "How Do You Think It Feels". Reed lo accompagna in disparte, ritagliandosi i suoi ovvi, intimi momenti in "Caroline Says II" e nella straziante "The Kids", che torna a far venire la pelle d’oca con quelle grida infantili disperate.

L’Espressione

Quando la lunga "Sad Song" si spegne, un boato fa esplodere la sala. Lou Reed fa il mastro di cerimonie e presenta tutti i protagonisti al pubblico, come a voler ringraziare soprattutto loro per avergli dato la possibilità concreta di togliersi forse l’ultimo sassolino dalla scarpa.
Ovviamente il concerto è durato troppo poco e la gente ha voglia di avvicinarsi al palco, di ballare e cantare dopo aver vissuto l’incubo di Jim e Caroline.

Allora, non resta che tornare sul palco per dare un po’ di carica, per divertirsi. E Reed si diverte un mondo, con la band di "Berlin", a rimettere i panni della drag-queen viziosa. Le luci vanno su Steve Hunter che accenna il leggendario intro di "Sweet Jane" che, tuttavia, viene accolta con il solito delirio solo dopo i "tre accordi che valgono una carriera". Il brano è insolitamente potente, ma viene rovinato dalle atmosfere soul della corista Katie Krykant che, forse, è l’unico elemento veramente inutile della band. Ci fosse stato Antony, sarebbe stato molto diverso.
Reed gigioneggia con la chitarra e scherza con la voce melensa di Fernando Saunders che apre "Satellite of Love", fortunatamente dilatata alla perfezione dall’orchestra e dal coro nella parte finale.

E’ ovvio che l’obiettivo è approfittare del momento speciale per rendere più fedelmente brani storici. "Walk On The Wild Side", dèjà vu struggente per la Factory di Warhol, si bagna di nuova luce con il vecchio arrangiamento jazzato squarciato dal sax finale.
Il concerto è finito. Reed allunga le braccia in segno di vittoria mentre il pubblico lo applaude estasiato.
Non sarà più lo spettro di Jim che aspetta il suo uomo sulla Lexington, ma, stasera, il vecchio animale del rock and roll ha vinto la sua scommessa, ancora una volta.

(06/07/2007)