Permettete che vi presenti il Dr. Stringz? È un gentile sociopatico, un artigiano degli strumenti a corda, uno scienziato pazzo del violino... Da quando l’ha impersonato in un programma televisivo per bambini, Andrew Bird è posseduto dal suo spirito. Di solito fa capolino nel motivo che introduce la classica “Fake Palindromes”: “I’m so pleased to meet you, I’m the one they call Dr. Stringz…”. Qualcuno ha provato ad invocarla anche nella calda primavera milanese del Music Drome, ma lui si è schermito con un sorriso: “ci vuole troppo carisma…”. Sì, perché stavolta Andrew Bird non ha al suo fianco la band che lo accompagna di solito sul palco: è in perfetta solitudine, proprio come agli albori della sua avventura solista. Ma niente paura, il folle genio del Dr. Stringz ormai è parte di lui: non ha bisogno di annunciarsi per trascinare ogni nota nel suo mondo fantastico.
Ad introdurre Andrew Bird in scena è una sorta di rituale di invocazione della musa: prima porta a sedere il suo pupazzo portafortuna sul grammofono bicefalo che fa come sempre da sfondo alla scenografia; poi comincia a costruire un magnetico prologo strumentale con le consuete stratificazioni di campionamenti di violino, chitarra, glockenspiel, battimani e – ovviamente – fischio. Solo a quel punto è pronto per togliersi gli stivali e rimanere con le inconfondibili calze multicolore che indossa per calcare il palco. Ed ecco prendere forma la tormentata malinconia di “The Water Jet Cilice”, direttamente dall’Ep “Soldier On”, che ferisce con i suoi “racconti di auto-tortura rituale” per voce e violino. Poi, “Sovay” avvolge la platea con una grazia lieve, unica concessione al capolavoro “The Mysterious Production Of Eggs”.
Ogni brano è una palpitante creazione che si dipana davanti agli occhi del pubblico: imbracciando il violino come una chitarra, Bird tratteggia l’ossatura ritmica dei brani con il suo pizzicato; quindi prende in mano l’archetto per distendere la melodia, mentre armeggia con i pedali per mandare in loop le parti registrate di volta in volta, che si sovrappongono tra di loro con un effetto ipnotico. Tutto il resto è improvvisazione, estro, ispirazione di un istante, in un gioco dove anche l’imperfezione diventa parte integrante del processo creativo. C’è spazio per qualsiasi stramberia: Bird fa roteare il suo grammofono per creare riverberi durante il crescendo dei brani, si inventa ritmi soltanto con voce e microfono, arriva a fischiare direttamente nella cassa armonica del violino per trarne compiaciuto un’inedita risonanza… Solo un prodigioso one-man band come lui potrebbe riuscire a catturare da solo l’attenzione per quasi due ore di musica – spesso non esattamente immediata da seguire.
Quando Bird sfoggia i toni teatrali di vecchi brani come “Why?” o “Action/Adventure”, abbandonandosi a fughe buckleyane ed ironici intermezzi, sembra davvero di ritrovarsi catapultati all’epoca dei primi concerti del songwriter di Chicago (come quelli documentati nella serie di live autoprodotti “Fingerlings”). Dal passato sbuca addirittura “Sweetbreads”, una primigenia versione di “Darkmatter” dedicata ai paradossi del cibarsi di organi animali (!), ed è una delizia di handclapping e armonie leggiadre in cui Bird fantastica a proposito delle intermittenze dei neuroni.
Quel suo sguardo sottilmente allucinato non stonerebbe sul volto dell’Anthony Perkins di “Psycho”, mentre si abbandona alla musica scuotendo la testa e arruffandosi i capelli. Le sfumature cantautorali di “Natural Disaster” e “Scythian Empire” cullano con dolcezza, lasciando trasparire i tratti più intimi delle sue visioni a base di microorganismi e cavalieri della steppa. “Effigy”, spiega lui stesso, è l’altro lato dell’alienazione, la speranza concessa anche a chi si trova inevitabilmente a disagio in mezzo alla gente: “If you come to find me affable, build a replica for me”, sussurra. Ma è quando l’elettricità della sua Gibson vintage si fa più incalzante, come tra i vivaci fischiettii di “Oh No” e “Fitz And The Dizzyspells”, che l’entusiasmo della platea diventa palpabile, a conferma della brillantezza dell’ultimo “Noble Beast”. Del resto, il successo della serata inaugurale dei “Vitaminic Days” è testimoniato dal fatto che, per accogliere il pubblico che si assiepa attorno a Bird, è stato necessario spostare il concerto in una sede più capiente rispetto alla location originariamente prevista.
Tra le movenze sinuose dell’immancabile “Imitosis” e le interferenze che percorrono la morbida “Cataracts”, il congedo è affidato alle volute funamboliche di “Anonanimal” e “Weather Systems”, con il violino di Bird a tessere arzigogoli più elaborati che mai. Ma non è un virtuosismo fine a sé stesso, il suo: c’è sempre un fuoco instancabile ad animarlo. E non è un caso che, nonostante manchi a volte quella leggerezza pop che aleggia sui suoi album, Bird riesca a tenere il pubblico incollato alle corde del proprio violino anche senza l’apporto di una band a sostenerlo.
“I will become this animal / Perfectly adapted to the music halls”, proclama Bird in “Anonanimal” prima che cali il sipario, descrivendo con la solita immaginifica inventiva la sua lunga e continua metamorfosi artistica. Nemmeno Darwin avrebbe potuto teorizzarlo: la scoperta dell’homo birdianus è un meraviglioso imprevisto nell’evoluzione della specie.
(21/05/2009)
Foto di Giovanna Bonora